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Il terapeuta come nesso relazionale

Il terapeuta come nesso relazionale    


In precedenti lavori era stato evidenziato il dilemma terapeutico della famiglia nella sua incapacità di tollerare quelle fasi di disorganizzazione che sono necessarie per modificare l’equilibrio funzionale proprio di uno stadio di sviluppo e acquisirne uno nuovo, che si esprimeva nella sua richiesta di “aiutarla a muoversi stando ferma”. Veniva considerata come resistenza al cambiamento e pertanto scoraggiata se non ostacolata, in quanto ritenuta improduttiva.    
Questa resistenza era avvertita dal terapeuta come un vero e proprio rifiuto nei suoi confronti e nei confronti della terapia, e lo spingeva spesso a tentare di modificare dall’inizio l’immagine di sé presentata dalla famiglia, opponendosi ai tentativi messi in atto da quest’ultima per coinvolgerlo nel gioco.    
Ma nell’atto stesso di opporsi al gioco erano già impliciti la sua partecipazione e il suo coinvolgimento.    
Se in pratica gli risultava impossibile mantenere una posizione esterna di osservatore neutrale, ben più utile sarebbe stato per lui prima assecondare il gioco della famiglia e dall’interno di questa nuova configurazione di rapporti costruire il gioco terapeutico.    
Se da un lato si richiede al terapeuta di assumere una sua coerenza interna, dall’altro è necessario che egli instauri una proficua atmosfera di rapporto, una forma di contatto epidermica, ciò richiede un uso del Sé flessibile, aperto e senza prevenzioni.    
Proprio riempiendo vuoti importanti il terapeuta potrà raccogliere informazioni vitali sul significato di quei vuoti per i suoi interlocutori. Quando al terapeuta vengono richieste funzioni ancora più magiche, magari di impersonare una “divinità”, può essere più utile per lui accettare questa investitura che scappare dal gioco. Se il terapeuta potrà usarsi come immagine ideale quel tanto che basta per farla divenire una metafora relazionale, potrà magari cogliere il diverso bisogno di un “essere superiore” rispettivamente per un partner A e per un partner B. Subito dopo l’esigenza di quell’entità straordinaria potrà essere legata all’assenza di un genitore importante per A o di una guida nel matrimonio per B; in questo modo, sviluppando e ampliando i significati legati alla ricerca di una divinità, si potranno rilevare differenze e complementarietà tra i bisogni di A e di B, permettendo a ciascuno, terapeuta compreso, di operare la triangolazione necessaria per orientarsi rispetto allo specifico problema.    
Non occorre infatti che il terapeuta rinunci a usare sé stesso (nella sua complessità di essere pensante ed emozionale) come nesso principale per raccogliere informazioni, al fine di mantenersi costantemente a un meta livello.     
E’ proprio nella sua possibilità di occupare alternativamente una posizione di osservatore di ciò che accade nella relazione e di stabilire legami diadici ora con l’uno ora con l’altro dei partecipanti, ponendo a sua volta il terzo nella qualità di osservatore di quanto si sta svolgendo, che risiede uno degli elementi strutturali della terapia: la struttura triangolare che permette di entrare e uscire dal rapporto, distanziandosi quel tanto che è necessario per capire cosa sta succedendo e per crearsi dei modelli di apprendimento.    
Come il terapeuta apprende, nel momento in cui si pone come osservatore, le regole e le modalità relazionali delle diverse diadi che va attivando, allo stesso modo coloro che assistono alle interazioni tra il terapeuta e l’altro membro della diade apprendono modalità nuove di rapportarsi, modellate in parte su ciò che vedono fare al terapeuta, nel momento in cui egli risponde a determinate richieste funzionali.    
Creare di continuo nuovi rapporti triangolari e cercare di legare tra loro i vari triangoli diventa uno dei compiti principali del terapeuta, nel momento in cui si pone come attivatore delle diverse relazioni.    
Quanto più il terapeuta riuscirà a legare, slegare, strutturare, ristrutturare i legami, tanto più ciascuno, terapeuta incluso, potrà sperimentarsi  in nuove posizioni  relazionali e quindi apprendere nuovi modi di essere e di porsi in relazione agli altri.    
Per riproporsi come nesso relazionale del gruppo familiare, il terapeuta dovrà anche essere in grado di cogliere il “mondo” di ogni membro della famiglia, di immedesimarsi cioè con una parte dei suoi aspetti più specifici e personali. Dovrà scoprire come ciascuno si prefigura il primo incontro e quelli successivi, quali potenziali scenari alternativi è disposto a mettere in atto nella sua fantasia, quali rischi e quali sfide sono tollerabili e in quali tempi, senza che il rapporto venga interrotto

Tratto da TEMPO E MITO IN PSICOTERAPIA FAMILIARE di Antonino Cascione
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