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Descrizioni e dialoghi nella sceneggiatura del film


In una sceneggiatura, le descrizioni sono al presente indicativo. Non bisogna inserire notazioni psicologiche o evocative, che in una sceneggiatura vanno tradotti in chiave visiva. Ciò detto, la condizione psicologica del personaggio deve essere nota a chi scrive per evitare il rischio opposto: descrivere azioni prive di significato emotivo, che non rimandano allo stato interiore.
 
La punteggiatura deve essere usata per stabilire un’equivalenza periodo/inquadratura (la frase lunga con molte virgole sarà come un movimento di macchina che lega diversi oggetti). Per quanto riguarda le descrizioni dei luoghi, è impossibile dare conto di tutto ciò che si vedrà sullo schermo. In particolare, si descriverà allora lo spazio che ha un ruolo narrativo essenziale.
La stesura dei dialoghi è quasi sempre la parte conclusiva della sceneggiatura. Spesso costituisce un settore a parte, perché non è detto che un bravo sceneggiatore sappia scrivere dei buoni dia-loghi: non a caso esistono, anche nella fiction televisiva, figure specializzate chiamate dialoghisti.

Tuttavia, il dialogo svolge la sua funzione in maniera indiretta: bisogna evitare le informazioni inutili o troppo esplicite. Nel suo Consigli a un giovane scrittore, Cerami riporta l’esempio di un dialogo sbagliato perché palesemente subordinato al passaggio di informazioni, in gergo telefonato. Cerami consiglia inoltre di dosare bene le informazioni, di non esplicitarle subito.

C’è poi un altro pericolo da evitare: il dialogo a blocchetti, cioè la successione di piccoli monolo-ghi pretestuosamente agganciati l’uno all’altro. Chi parla deve invece legare la sua risposta alla battuta appena ascoltata, in modo da creare un filo rosso che incatena il dialogo e gli dà scorre-volezza. Tale filo rosso si ottiene trovando in ogni battuta il punto sul quale si appoggerà la replica.

Le parole dei dialoghi cinematografici non hanno autonomia significante, sono parte di un sistema narrativo il cui centro è l’immagine, l’azione. Ai dialoghi di una sceneggiatura deve sempre mancare qualcosa, ma è una mancanza studiata, preordinata. E’ questa la differenza tra i dialo-ghi drammatico e dottrinale (ad es. le Operette morali di Leopardi), dove i personaggi non contano in quanto uomini con una psicologia e dei sentimenti, ma in quanto portatori di un’idea filosofica.

Insomma, occorre ricordare il principio per cui a costruire una scena è ciò che il personaggio fa, non ciò che dice. Ciò che il personaggio dice deve funzionare come rinforzo e talora come controcanto rispetto all’azione. La scena deve parlare da sola, in modo che i dialoghi siano liberi dall’obbligo di trasmettere informazioni, aggiungendo invece un senso in più alle immagini.

L’esempio di Cerami è: una madre ha scoperto che il figlio si droga, e il figlio lo sa. Quando i due si affrontano, sarebbe banale che lei andasse subito al punto. E’ più efficace se i due parlano d’altro, alludono, girano intorno all’argomento. Uno scrittore dicendo di meno (non informando), dice di più.

C’è poi una preoccupazione di realismo: al cinema si cerca di riprodurre la realtà, mimando la casualità del quotidiano: le frasi vanno sintatticamente sporcate, come inventate al momento.

Inoltre, poiché nella vita vera ogni persona ha il suo modo di parlare, bisogna evitare che tutti i personaggi usino un linguaggio standard. Lo sceneggiatore deve ascoltare come si esprimono persone appartenenti a professioni, classi e etnie diverse, e cercare di imitarne vocabolario, modi di dire, accenti. Il dialogo, insomma, per un verso deve sembrare casuale, per un altro preciso.

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