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Il filo di Arianna: il paziente designato come regolatore del processo terapeutico

Il filo di Arianna: il paziente designato come regolatore del processo terapeutico    


E’ importante considerare il paziente designato come porta d’entrata nel sistema familiare, in quanto finisce per rappresentare  l’occasione per il formarsi e l’evolversi del processo terapeutico. Pertanto risulta produttivo stringere fin dall’inizio una forma di complicità col paziente designato, tanto più utile e duratura quanto più implicita e non verbalizzata. Tale complicità è realizzabile attraverso 2 operazioni del terapeuta:
1) la prima consiste nel neutralizzare precocemente i vantaggi secondari che ogni paziente tende ad assicurarsi più o meno apertamente come rivalsa per il suo ruolo di incapace e diverso, ad esempio esercitando centralità assoluta a casa e in seduta; la strada migliore per il terapeuta sembra quella di entrare  il meno possibile nella sfera delle connotazioni di patologia, evitando di riconoscere e di etichettare come patologici comportamenti presentati e ostentati come tali, il terapeuta spinge il paziente e la famiglia a spostarsi su altri livelli, più complessi e meno circoscrivibili; ad esempio dal livello del disturbi psichiatrico si sposta su quello della crisi evolutiva della famiglia.    
2) la seconda consiste nel cercare di sollecitare le parti sane, senza confrontarsi con la sola identità negativa presentata dal paziente: se il paziente avverte l’interesse del terapeuta a cercare quello che non si vede o che non si dice e le connessioni che lo legano a quello che invece si vede e si dice, sarà disponibile a collaborare, scorgendo la possibilità di liberarsi di pesi funzionali e di tensioni che gravano su di lui, ma che appartengono anche ad altri interlocutori e ad altre generazioni.    
L’obiettivo allora non è affatto di negare i sintomi, ma semplicemente di spostarli di livello, dando loro un valore diverso: da immagine cristallizzata del fallimento di molti, gli stessi sintomi vengono usati come segnali capaci di indicare percorsi alternativi a una famiglia altrimenti bloccata.    
Il terapeuta può cosi formulare le sue prime ipotesi sul funzionamento del gruppo familiare e sulle sue risorse interne, mentre il paziente sollecita l’intero assetto funzionale della famiglia, fornendo informazioni utili su come procedere verso quel cambiamento da tutti apparentemente più temuto che desiderato.    
Il terapeuta, stringendo una complicità siffatta con il paziente, lo investe della funzione di vero e proprio coterapeuta: il paziente invia i segnali; il terapeuta li raccoglie, li organizza e li traduce per il gruppo.    
Considerare il paziente designato come regolatore del processo terapeutico ci ha liberato dalla preoccupazione di valutare il progresso della terapia sulla base del semplice miglioramento sintomatologico. Si tratta di segnali diversi che richiedono decodifiche differenti e ipotesi e strategie adeguati, essi scandiscono il tempo della terapia, indicandoci dove e quando accelerare o frenare. I miglioramenti sintomatologici, fino alla scomparsa dei sintomi stessi, avvengono proprio nella misura in cui non ci preoccupiamo più di sollecitarli.    
Il paziente, oltre a rappresentare la porta d’entrata del sistema, può fungere da vera e propria guida del processo terapeutico; diventa una sorta di filo di Arianna per orientarci nel labirinto senza correre il rischio di addentrarci in qualche vicolo cieco o, ancor peggio,di non trovare più la via d’uscita.    
E’ fondamentale imparare a considerare il paziente come il filo d’Arianna e non come Arianna: ovvero non dobbiamo farci carico subito del paziente come individuo isolato con esigenze e bisogni suoi propri, staccando i dati della nostra osservazione dagli aspetti funzionali di “filo” che il paziente ci mostrava.    
Sofferenza e bisogno di autonomia del paziente dovevano essere accolti e difesi esplicitamente molto più avanti nel corso della terapia, quando egli serviva assai meno alla famiglia come baricentro delle sue tensioni e conflittualità, e poteva riconoscere esigenze e bisogni suoi propri. Quando cioè le emozioni individuali non dovevano più essere sacrificate in nome di un’indifferenziata emotività familiare.    
Sostituirsi a funzioni familiari carenti o adottare affettivamente questo o quel membro della famiglia sono rischi assai comuni per un terapeuta incapace di mantenere una distanza terapeutica.

Tratto da TEMPO E MITO IN PSICOTERAPIA FAMILIARE di Antonino Cascione
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