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Diane, l’intravisione del proprio futuro


Nella mente di Diane, che in accetta il presente doloroso e senza scampo, si cerca un’intravisione del proprio futuro; se l’estrema estraniazione dalla società (la figura dell’homeless) fosse accettata, e qualora la scatola di segreti potesse essere deposta, il passato, anzi le stesse speranze che lo informavano, ritornerebbero comunque come figure ossessive che lasciano come scampo ultimo solo il suicidio. Esse ritornerebbero perché, gettata la scatola blu, resta la chiave, passata sotto la porta e ancora davanti agli occhi di Diane. Resta soprattutto il portato del sogno dove chiave e scatola era state consegnate idealmente all’amata, accettando con ciò di reggere la colpa e di espiarla. Non solo la chiave è l’emblema delle tracce lasciate per via della macchina criminale arrabattata che Diane è riuscita a mettere in campo, ma è anche una chiamata di responsabilizzazione che, se non corrisposta, violerebbe quel sentimento di riconciliazione, di patimento comune con l’amata, che il sogno ha ricostruito.
Il film finisce associando, nella slabbratura del presente, la biforcazione del futuro (homeless/suicidio) con la persistenza dell’unica cosa salvabile, e che si sarebbe voluta condivisa: l’immagine ravvicinata, felice e e(ste)ticamente solidale di Camilla e Diane (in realtà, Betty e Rita, entrambe bionde) che guardano dall’alto tutta Hollywood ai loro piedi, dominio comune in un sogno condiviso. È solo il sogno allora che può essere teatro di questo affrancamento da uno scacco esistenziale che di per sé riserverebbe esclusivamente vie d’uscita estreme (totale emarginazione/suicidio); riappare allora la donna dai capelli blu del Club Silen-cio, e pronuncia la parola d’ordine per una fuga onirica in grado di lenire le colpe, di condividere un pianto, malgrado l’incancellabilità di quello che è successo: la parola “Silenzio”. La lunga immagine al nero che si sostituisce alla visione di questa donna non è che lo sprofondamento nell’ennesimo sonno di una donna che continuava a fissare la chiave della propria colpa, davanti al tavolino, e che a ogni bussare della porta temeva di ritrovare il passato pronto a rincorrerla e a non lasciarle altro scampo che il suicidio.

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