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Filiberto Menna, la critica della critica


Il suo lavoro parte da un tentativo di definire lo specifico critico, e rispetto a quello di De Marchi, che era prettamente cinematografico, questo è esteso al discorso artistico in generale. Per egli fare critica della critica significa principalmente perseguire un progetto d’indagine di stampo jakobsoniano, con lo scopo di definire non più cosa fa di un messaggio verbale un’opera d’arte ma ciò che si una data opera fa un’opera critica.
Da una parte abbiamo un tipo di discorso che tende a diffidare della critica in quanto strumento in grado di omologare l’arte all’istituzione culturale – l’artista appare come un soggetto che viene continuamente imbrigliato dal critico.
Dall’altra parte abbiamo un insieme di pratiche che espressive e discorsi diversi tra loro, tutti riconducibili a una matrice comune rappresentata da ciò che recentemente, in campo letterario, Anceschi ha chiamato la critica della poesia. L’interpretazione viene sfidata sul proprio terreno da un’arte che non rilascia più deleghe e vuole assumere in prima persona il compito dell’attribuzione del senso e della valutazione.
Il fenomeno è noto almeno dal diffondersi della nozione di cinema moderno, e le argomentazioni di Bruno poggiano proprio sul presupposto che l’estetica cinematografica postmoderna si caratterizzi attraverso prodotti apparentemente ludici ma in realtà autoriflessivi e in grado di provvedere ad una autodecostruzione critica.
Da quando ha inizio il diffondersi di un cinema che sembrava suggerire in modo esplicito i modi se non i metodi per essere correttamente interpretato, il critico cinematografico ha preso a manifestare sintomi di crisi ed insofferenza sempre meno eludibili.
L’opera d’arte non ha più bisogno di essere fatta concretamente; ciò che conta è l’insieme di proposizioni teoriche, di progetti intellettuali che rendono possibile l’arte in quanto tale. Così facendo non è forse neppure più legittimo parlare di opera, e si rende necessario parlare di proposizioni: è la proposizione stessa che dice “questa è arte”, cosicché la mediazione del critico si rende superflua.
Le posizioni di chi rifiuta l’autonomia dell’interpretazione non riconoscendone la necessità e le posizioni di chi rifiuta il valore della critica accusandola di essere una pratica di omologazione si incontrano nella condivisione di un’idea del fare artistico come di un’attività separata e ingovernabile da principi eteronomi, di un’idea elitaria dell’arte. L’arte basta a se stessa – autarchia interpretativa –,l’arte e l’arte e basta – autorappresentazione tautologica.
Se è vero che l’arte concettuale è e può essere metadiscorsiva, è pure innegabile che essa può non esserlo. L’arte non è destinata a priori all’autoriflessività. Qua sta la differenza rispetto alla critica, la quale, secondo Menna, è sempre ed inevitabilmente metadiscorso. Si passa dal piano della possibilità a quello della necessità. Ed ecco che il punto d’incontro tra arte e critica nel segno dell’autoriflessività è anche l’occasione di una differenziazione reciproca.
C’è quindi un luogo in cui arte e critica si trovano solidali, ma solidarietà non significa identificazione.

Tratto da CRITICA CINEMATOGRAFICA di Nicola Giuseppe Scelsi
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