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L'arrivo del buddismo in Cina

Le origini del buddismo risalgono al principe indiano Siddhartha Gautama, originario di un antico feudo situato ai piedi dell’Himalaya, lungo quelli che sono oggi i confini meridionali del Nepal. Si ritiene che sia vissuto tra il VI e il V secolo avanti Cristo, e nulla è noto riguardo al suo insegnamento originario. I più antichi testi buddisti furono infatti scritti parecchi secoli dopo la scomparsa di Gautama; inoltre la comparsa di numerose scuole ha fatto sì che la trasmissione della dottrina assumesse sin dall’inizio forme contraddittorie e talvolta confuse. Per informazioni sugli aspetti principali della dottrina si rimanda alle pagine 219 e 220 del libro, o alla prefazione di Siddhartha di Esse pubblicata da Adelphi. 

Non si sa esattamente quando il buddismo cominciò a diffondersi in Cina, già nel 65 d.C. sembra che il fratello dell’imperatore Ming fosse patrono di alcune comunità buddiste; tuttavia è certamente il medioevo l’epoca in cui esso si diffuse fra la gran parte della popolazione. Il buddismo avrebbe comunque lasciato una impronta indelebile nulla successiva evoluzione della civiltà cinese.
Interessanti sono le differenze che si produssero fra la chiesa buddista nel Regno settentrionale e quella nel Regno meridionale. Mentre nel primo essa appare molto legata al potere politico, nel secondo essa lottò sempre per ribadire la sua indipendenza rispetto al potere temporale. Nel IV secolo si ebbe ad esempio uno scontro in merito alla questione se i monaci buddisti dovessero inchinarsi all’imperatore così come tutti gli altri sudditi. La corte meridionale era sull’argomento spaccata a metà, anche perché molte importanti famiglie avevano abbracciato la fede buddista e difendevano gli interessi della Chiesa buddista. Alla fine i monaci ottennero il permesso di non inchinarsi, dato che essi avevano solamente il compito di rispettare le regole del proprio ordine rimanendo estranei alle questioni materiali. Le comunità buddiste nel sud riuscirono in effetti a stabilire e consolidare una posizione di indipendenza, venendo anche esentate dal pagamento delle imposte ed evitando la sottomissione, anche solo formale, alle autorità dello stato. Ciò avvenne a causa della debolezza del potere centrale da un lato, e grazie all’appoggio delle grandi famiglie dall’altro. Le donazioni elargite da queste permisero anche ai monasteri di crearsi una solida posizione economica, con l’acquisto di terre coltivate dai monaci o da loro dipendenti. I monasteri buddisti nel sud apparivano perfettamente integrati alla fisionomia dell’economia meridionale, plasmata attorno alle grandi tenute fondiarie autosufficienti. Una situazione del tutto diversa segnò invece sin dall’inizio l’espansione buddista nella Cina settentrionale, dove la forte instabilità politica e sociale costrinse i monaci, per poter sopravvivere e propagandare la dottrina, a ricercare l’appoggio del potere politico, il quale, dal canto suo, vedeva di buon occhi la nuova religione, che avrebbe potuto in qualche misura legittimare il suo dominio. I sovrani barbarici inoltre necessitavano dei consigli dei monaci buddisti e della loro arte divinatoria per lo svolgimento delle faccende di stato. 

Nonostante alcuni brevi periodi, sia nel Nord che nel Sud, durante i quali il buddismo fu oggetto di persecuzioni da parte di alcuni imperatori e saggi (le accuse principali erano quelle di essere una religione straniera e di minare l’ordine familiare promuovendo tramite la castità dei monaci e il loro diritto a non inchinarsi né di fronte all’imperatore né al proprio padre), la religione si diffuse ampiamente, arrivando a costituire uno dei bastioni dell’unità culturale del Secondo impero.

Tratto da STORIA DELLA CINA di Lorenzo Possamai
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