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Il contributo di Fiorella Giacalone: la famiglia magrebina in Italia


La famiglia quale centro degli affetti ed elemento di continuità con la tradizione è un aspirazione comune tra i magrebini tanto che se la coppia non ha figli non è considerata neanche famiglia. La tipologia di famiglia più diffusa tra gli immigrati è quella nucleare dovuta al ricongiungimento della moglie e dei figli con il padre precedentemente immigrato. Nelle società arabe la presenza di figli è ciò che da senso al matrimonio per la discendenza patrilineare e la sterilità è vista come menomazione con il rischio di divorzio o ripudio. Le famiglie estese sono più presenti di quanto si possa credere e sono caratterizzate da coniugi adulti con figli grandi sono grandi famiglie immigrate a tappe composte da più famiglie di diverse fratelli oppure anche della seconda moglie. Infatti in alcune culture islamiche è prevista la poligamia anche se ad oggi poco praticata quindi si preferisce divorziare e passare a seconde nozze: la moglie che viene in Italia è la seconda. Il diritto islamico marocchino prevede che al padre spetti la podestà quindi i compiti dell’istruzione, amministrazione dei beni, e del matrimonio dei figli mentre alla madre la custodia: essa ha il compito di educatrice fino ai 5 anni di vita del bambino. In realtà il potere della donna in famiglia va ben oltre questa fascia di età ma sta solo ad indicare che nel caso di separazione il figlio dopo i 5 anni andrà con il padre. Le famiglie magrebine immigrate vedono la presenza dei figli  come condizione di stabilità della loro presenza in Italia, come allungamento del progetto migratorio.  Per le giovani coppie rappresentano un fattore di forte coesione e la donna spesso esclusa dalla dimensione lavorativa reagisce proprio con la maternità. I figli diventano così un  investimento della coppia e restituiscono alla donna un identità in crisi. L’onore della donna è ciò che mantiene unita e sicura la famiglia: il prestigio dell’uomo dipende dal comportamento della moglie e dal suo ruolo di educatrice. Infatti una buona moglie e una buona madre ha intorno a se figli onesti e premurosi pertanto è dall’educazione dei suoi figli che si evince il valore della donna. Se l’inculturazione è quel complesso processo per cui un individuo entra a far parte di una comunità attraverso l’apprendimento di modelli culturali che servono da orientamento nella società e l’acculturazione è la messa in discussione dei propri orientamenti cognitivi e comportamentali in rapporto alla cultura ospitante appare evidente lo stretto rapporto tra educazione materna e fattori legati all’immigrazione. La madre è dunque il più importante veicolo di trasmissione culturale ed ha il compito di presentare al bambino una realtà che è mediata da lei stessa al fine di prepararlo ad una realtà che cambia. Nei processi migratori si deve mettere in discussione quanto appreso tramite il processo di inculturazione: si tratta come direbbe De Martino di riaddomesticare la realtà cioè trovare nuova domesticità, familiarità alle cose. Le cure materne risentono inevitabilmente di questo processo perché sono il primo passo per trasmettere saperi da una generazione all’altra dando vita alla formazione dell’identità del bambino: nella migrazione c’è il passaggio da una situazione di sostegno della famiglia allargata ad una di solitudine della famiglia nucleare. La rete familiare femminile consente forme di solidarietà e sostegno  che sono di primaria importanza per le cure allevanti e che in Italia non possono avere. Il passaggio da un tipo di struttura di parentela particolarmente forte e solidale come quella allargata alla famiglia nucleare determina vuoti comunicativi e relazionali.

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