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Un'indagine pragmatista sulla critica cinematografica



È nel segno della retorica della critica che adesso verrà orientato il nostro discorso.
Teorizzare coincide con la necessità di teorizzare; e la necessità di teorizzare coincide con la necessità di dare un volto definito ai saperi che informano un’istituzione.
Un’alternativa valida è partire dal disordine per restarvi e vedere se da questo caos discorsivo, in un secondo tempo, sia possibile trarre anche delle conclusioni teoriche.
Lo scopo di un’indagine empirica non è di sfuggire ingenuamente a un punto di vista previo che orienti l’indagine, ma di eludere questo bisogno di teoria inteso come bisogno d’ordine.
Si vuole qui guardare la critica attraverso un preciso punto di vista, che vorrebbe essere di tipo pragmatista. Il progetto pragmatista coincide in gran parte con lo sforzo di smontare ogni dottrina filosofica che assume di dover legittimare i propri discorsi in riferimento a fondamenti – fisici, psichici, logici, o metaforici che siano – dei quali gli enunciati sarebbero veri.
Un’indagine di tipo pragmatista sulla critica non è portatrice di un atteggiamento poco solidale verso l’istituzione tanto quanto il filosofo pragmatista non è un filosofo scettico. Il filosofo pragmatista sa perfettamente che non si può portare avanti alcun discorso al di fuori della Verità; egli non rifiuta la Verità: semplicemente rifiuta la nozione di teoria della verità poiché non crede che esista qualcosa chiamata teoria avente le caratteristiche di funzionare come metavocabolario privilegiato per raggiungere certezze epistemologiche.
Fare riferimento a nozioni come l’“essenza della critica”, il suo “spazio proprio”, “lo specifico”, significa ricorrere a quel genere di concetti ipostatici che un filosofo neo-pragmatista come Rorty chiamerebbe rappresentazioni privilegiate.
Il privilegio su cui si basano certi concetti teorici consiste nel fare poggiare i concetti stessi su basi predicate come necessarie. Abbiamo visto all’opera questi meccanismi di instaurazione del regime di necessità: per De Marchi, la necessità della critica è una petizione di principio che trova giustificazione in strutture astoriche come “la legge morale”, “la natura dell’uomo”; per Menna, l’incidenza di queste strutture astoriche è ben più circoscritta e riguarda l’esigenza di evitare il libero arbitrio, di non confondere le discipline umanistiche con lo specifico critico.
La proposta pragmatista può essere sintetizzata così: cerchiamo di fare a meno di tutto ciò; ciò significa cercare di dare più attenzione al lavoro quotidiano dell’interpretazione e dimostrare che è un bene che esso ci sia e continui ad esserci senza bisogno di giustificarne le manifestazioni ad un livello profondo di senso. Non abbiamo bisogno di una teoria, significa accettare la sfida di parlare della critica senza impiegare nozioni imprecisate come specifico e statuto; vuol dire provare a sostituire ad una teoria giustificativa già definita in partenza una fenomenologia degli atti critici poggiante non su l’ipostasi dell’essere-uomo come universitas, ma sulla comunità critica come civitas limitata, circoscritta a determinati individui. Vuol dire in definitiva, verificare se sia possibile dare una indagine accrescitiva dal punto di vista del sapere senza ricorrere ad una difesa della critica passante attraverso la dimostrazione della sua necessità intrinseca per la società, ne attraverso la difesa di uno spazio autonomo in cui collocare l’impresa interpretativa.


Tratto da CRITICA CINEMATOGRAFICA di Nicola Giuseppe Scelsi
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