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Trauma migratorio e comunicazione interculturale

Trauma migratorio e  comunicazione interculturale


I progetti migratori portano con sé dolore, sofferenza e nostalgia: decidere di crescere un figlio in un altro paese dunque non è cosa scontata ma al contrario è il risultato di un processo lungo e difficoltoso in cui spesso ci si sente anche disorientati. L’asilo nido è il primo luogo che permette ai genitori stranieri, soprattutto alle mamme spesso emarginate perché fuori dai circuiti lavorativi, di uscire dall’isolamento domestico e quindi  realizzare l’integrazione; dall’altro lato però l’incontro  mostra subito le differenze tra modelli e comportamenti educativi. Sul piano esistenziale l’incontro e la condivisone delle preoccupazioni e delle responsabilità per la cura e il benessere dei bambini costituisce un occasione e un terreno molto favorevole di incontro tra mondi e rappresentazioni culturali ma finché il modello educativo è implicito e preso a riferimento nello spazio privato della famiglia esso certo non desta preoccupazioni; il problema sorge al momento dell’ingresso del bambino in un servizio educativo. Modi, pratiche, stili si rendono osservabili e si prestano ad essere negoziati, discussi, approfonditi. C’è dunque la necessità pratica di far emergere l’implicito che in presenza di genitori e bambini immigrati è ancora più importante se si vogliono ridurre drasticamente incidenti comunicativi. Incontrarsi sui figli e sui modelli educativi però non è certo cosa da poco. Per questo si abbisogna della c.d. “comunicazione interculturale”: con questo termine si intende una particolare forma di incontro comunicativo tra soggetti e mondi diversi, rappresentanti di diverse culture o della stessa cultura ma afferenti a sistemi simbolici e universi culturali diversi. Questo tipo di comunicazione rinvia ai processi di costruzione collettiva e culturale dei significati nelle sue dimensioni formali, informali, intenzionali e non. Si tratta in definitiva di una certa disponibilità all’apertura, al riconoscere e mettere in gioco le cornici di riferimento esistenziali entro le quali la comunicazione ha luogo. Vivere tra due mondi è un esperienza dolorosa che comporta anch’essa una certa dose di rivisitazione dei propri orizzonti culturali; un esperienza il più delle volte non scelta, complicata e sofferta che spesso pone i bambini così come i genitori a non sentirsi ne l’uno ne l’atro, diversi ed estranei ad entrambi gli universi (Giaccardi, 2005 in Favaro, mantovani, ecc nello stesso nido) lo stesso vale per i genitori in equilibrio tra tradizione e novità, tra radici culturali e apertura all’altro. Ma l’incontro con l’altro non è utile solo agli operatori come momento di riflessione sui propri saperi, o solo alle famiglie immigrate perché si creano legami, socialità e dunque inclusione ma è positivo anche per i bambini autoctoni che in tal modo vivono un esperienza che li potrà aiutare nel tempo a sperimentare livelli maggiori di flessibilità cognitiva e a maturare maggiore attenzione e sensibilità alla differenza. Da tempo gli sforzi, gli investimenti formativi dei servizi per l’infanzia sono rivolti all’accoglienza e a percorsi di conoscenza delle culture altre ma esso viene percepito ancora come fenomeno relativamente recente; lo testimonia il fatto che nelle nostre scuole e asili la presenza di insegnati ed educatrici di altre culture è praticamente nulla. Negli spazi negli arredi, nei materiali, nelle attività proposte si legge ancora le nostre concezioni di infanzia, le nostre idee di politiche educative. Ciò è dovuto a numerosi fattori; sicuramente molte forme di chiusura e resistenza al cambiamento si debbono alla storia stessa del nido: il servizio e con esso molti operatori hanno lottato per molti anni e con molte difficoltà per vedere riconosciuta la sua essenziale funzione di sostegno alla genitorialità e di riflessione sui saperi allevanti che si andavano costruendo in itinere. Si tratta di rimettere in discussione ciò su cui già da tempo si è presa posizione pedagogica maturata nel tempo, costata fatica a chi l’ha costruita. Ma a prescindere dal fatto che il cambiamento è comunque la condizione umana per eccellenza e che le visoni di oggi sull’infanzia non sono certo quelle di una volta occorre fermarsi a riflettere sul fatto che ripensare non significa tradire o sospendere definitivamente percorsi e approfondimenti antichi ma piuttosto significa confrontarsi con nuove esigenze. Le diversità ci sorprendono, ci lasciano spaesati, ma questo processo deve essere a doppio senso: come noi dobbiamo fermarci a ripensare anche ciò che sembra assodato da tempo, l’altro non può che fare lo stesso costretto com’è dalla migrazione a rivedere i suoi orizzonti culturali e abitudini date per scontato. Nel capire l’altro dobbiamo poi rendere comprensibili le nostre specificità, le nostre pratiche. L’intercultura quindi non riguarda solo gli altri ma anche noi stessi che incontrando gli altri vediamo noi stessi in quel gioco di specchi in cui io mi riconosco in quanto riesco a differenziarmi dall’altro: rendere espliciti i nostri assunti culturali affinché siano negoziabili, discutibili,  è il primo passo verso l’altro perché non basta incrementare le occasioni di dialogo.

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