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"Gruppo di famiglia in un interno" e "L'innocente"



Già in Ludwig la prevalenza degli interni è netta. Nel successivo Gruppo di famiglia in un interno (1974) il rifiuto dell’esterno è totale. E non è solo una questione scenografica, per cui gli sfondi romani che si intravedono dal terrazzo sono dipinti, è anche una questione ideologica: una dichiarazione di entropia, che mediante la scenografica chiusura fisica allegorizza la chiusura esistenziale del Professore, un sopravvissuto d’altri tempi, quasi un redivivo Gattopardo (non a caso ancora Burt Lancaster) che come Visconti è stato antifascista, ha nascosto ebrei, ospitato partigiani e ora vive nel proprio appartamento/museo con qualche barlume di memoria, in una totale rinuncia alla dinamica del mondo esterno e in una pacata attesa della morte (il film è tutto narrato in flashback) turbata dalle dinamiche, anche affettive, che nella sua vita vengono introdotte da una rumorosa e anomala famiglia di vicini.
L’INNOCENTE
Anche l’ultimo film di Visconti, L’innocente, tratto dall’omonimo romanzo di Gabriele D’Annunzio (uscito postumo e presentato al Festival di Cannes del 1976), è un film di morte in cui Visconti, come sempre, operò mutamenti e commistioni rispetto alla fonte originaria. Storia di un altro vinto, propone il leitmotiv di tutta l’opera viscontiana: il crollo di un mondo, di una società e di un’epoca visto attraverso la sconfitta di uno o più individui che ne rappresentano la classe egemone. Ed è qui soprattutto che L’innocente offre il meglio di sé: nelle visioni fantasmatiche di un bel mondo d’antiquariato, dove degli zombi nerovestiti si stagliano immoti, lungo fondali di un rosso accesso, sussurrando parole spente sui le note pianistiche di Chopin e Listz echeggiano glaciali eternità.

Tratto da LUCHINO VISCONTI di Marco Vincenzo Valerio
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