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Contenuti di "L'immagine movimento" di Deleuze


Deleuze parte dalla crisi storica della psicologia, che colloca le immagini (non estese) nella coscienza e il movimento (esteso) nello spazio (materiale), e tenta di superare tale dualismo richiamandosi a Husserl (fenomenologia) e Bergson; Husserl parla di ogni coscienza come “coscienza di qualche cosa”, e così supera la dicotomia soggetto – oggetto, mentre Bergson sostiene che ogni coscienza è qualcosa; Deleuze supera la distinzione coscienza – movimento asserendo che la vita materiale è invasa da immagini e la percezione del mondo da movimenti, come evidente dalle esperienze artistiche (avanguardia, Proust, Joyce) di inizio secolo; il cinema secondo Bergson è un’esperienza percettiva di “falso movimento”, e molti bergsoniani e fenomenologi (tra cui Sartre e Merleau-Ponty) lo considerano un’imitazione non valida della percezione, ma Deleuze considera tale posizione motivata dalla conoscenza di un cinema “dell’inquadratura”, e non “del montaggio”, mentre quest’ultimo restituisce appieno l’esperienza del movimento, essendo costituito da immagini-movimento.
Deleuze parla di “Gestalt” come organizzazione dello spazio percettivo, ma essa riproduce il modo aleatorio in cui sono insieme gli esseri e le cose, attraverso una quantità di occorrenze che sfuggono allo sguardo dell’analista, e che sono motivate dal movimento e dal flusso da esso generato; si ha un’interazione tra immagini e cose, per cui il mondo dell’esperienza è formate di cose-immagini e immagini-cose, in un flusso in cui il movimento dà il passaggio tra le immagini e tra le cose, ed il mondo è l’insieme infinito di tutte le immagini, in una fusione tra aspetti soggettivi e oggettivi, tra volontà di percepire e organizzazione spaziale del mondo percepito; nel cinema immagine e movimento coincidono, così come esperienza del cinema e del mondo, e l’immagine è l’insieme di ciò che appare, senza mobili distinti dal loro movimento eseguito, sicché tutte le immagini si confondono con le loro azioni e reazioni, e non c’è dicotomia tra immagine e cosa di cui è rappresentazione, ma identità, data dal movimento, in quanto l’immagine in movimento è lo stato naturale della materia; il cinema “acquatico” francese degli anni ’30 è perciò visto non come immagine dell’acqua, ma come acqua materiale, e in genere l’universo filmico è visto come universo reale, dotato di una materia definita contestualmente all’immagine; l’immagine coincide con il movimento, è immagine-movimento in continuo passaggio da un “centro di indeterminatezza” o “piano di immanenza” a un altro, passaggio che è il movimento stesso e tramuta la percezione in azione; il cinema classico fa corrispondere ad ogni percezione un’azione, attraverso la mediazione di una “affezione” (esitazione tra percezione inquietante ed azione esitante, espressa dal primo piano o “volto” che mostra una “espressione”), e si hanno perciò immagine-percezione, immagine-affezione e immagine-azione; il “volto” è una “lastra portaorgani”, in cui si esprime la qualità della reazione alla percezione, interrompendo l’automatismo percezione – azione espresso dai campi più lunghi (più frequenti nel cinema hollywoodiano); da qui l’idea di “voltificazione” della realtà, quando (con il primo piano) un oggetto si astrae dal flusso temporale di automatismo, e l’equivalenza tra primo piano e “non-luogo” o “luogo qualunque”, lo spazio della modernità privo di fisionomia precisa e perciò dotato di pura potenzialità.

Tratto da SEMIOLOGIA DEL CINEMA di Massimiliano Rubbi
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