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Alessandro Manzoni – La morte di Adelchi


Siamo alle ultime scene del dramma. Carlo Magno, che ha già ripudiato la moglie Ermengarda, figlia di Desiderio, re dei Longobardi e sorella di Adelchi, è sceso in Italia difficoltosamente, ma secondo volontà divina, e ha sconfitto i longobardi prendendone prigioniero il sovrano, mentre il valoroso Adelchi, che si è battuto fino all'ultimo, è ferito a morte.
A rappresentare il dramma endecasillabi sciolti che si spezzano a gradino nel dialogato e sono spesso arrotondati da morbidi enjambements, anche fra un aggettivo e un sostantivo (fida / ora di pace 333 – 334; preso / vivrai 340 – 341; una feroce / forza 354 – 355), quasi come compenso a quanto vi è di aspro e scosceso, e diciamo pure di “prosa” nel complesso del dettato. E le rime, anche se non sempre ravvicinate, sono forse meno infrequenti di quanto ci aspetteremmo in dei versi sciolti: preso – asceso 340 – 350; questa – resta 344 – 353; tale – quale 369 – 382; saria – sia 376 – 381. Da segnalare anche le rime interne o al mezzo: Dio – mio 365 – 367; Fedel – ciel 402 – 404. E infine le quasi rime: perdo – superbo 364 – 366; preda – chiedo 374 – 375; vassallo – avello 389 – 390.
Tipici del genere tragico, e dunque anche con probabili riflessi alfieriani, sono determinati tratti stilistici: tali le formule solenni con cui il re chiama sé stesso alla terza persona e col suo nome proprio, che avranno ancora corso nella successiva opera in musica di Verdi; o le perifrasi nobilitanti come D'Adelchi il padre o Re de' re. Ma veicoli del pathos tragico sono soprattutto le geminazioni immediate o spezzate, e le anafore, infatti congiunte spesso a esclamative: Ahi lasso! Ahi guerra atroce! Eccetera.
Quello che ci sta dinanzi è una grande scena di catarsi. Purificando sé stesso in una morte che lo fa simile a Cristo, come dichiara soprattutto la sua ultima battuta, Adelchi purifica anche Desiderio, che da potente si addolcisce nel puro e dolente ruolo di padre, un po' come re Lear nel finale di Shakespeare: e purifica il nemico Carlo, che conquista una sua generosità e compassione. Adelchi stesso, nella morte cristiana e risanatrice, sembra congiungersi alla cara e dolce sorella, Ermengarda, già spirata.
Nel dialogo col padre, Adelchi sempre cerca di attrarlo nella sfera superiore e non più terrena dei suoi pensieri, ritorcendo dolcemente le sue affermazioni a un senso diverso e più alto e ruotando la sua correctio attorno al perno delle stesse parole paterne. Sta qui l'altra grande funzione delle ripetizioni nel nostro passo, come di gradini semantici dal terreno al sublime. E comunque padre e figlio hanno nel loro dialogare una voce del tutto diversa: emotiva, a battute brevi e piena di esclamazioni quella del primo; distesa e placata quella del secondo, che pronuncia un'esclamazione solo nella sua battuta conclusiva, al momento di congiungersi col Creatore. Questo grande finale è anche il luogo in cui Manzoni, riprendendo spunti sparsi nella tragedia, esprime attraverso le parole dell'illuminato morente una sua mai come ora così radicale filosofia della storia e della vita. È meglio non esser più re che esserlo ancora, perché non esserlo più toglie la possibilità di operare da potente, che è cosa inevitabilmente colpevole.

Tratto da STORIA DELLA LINGUA ITALIANA di Gherardo Fabretti
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