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La questione della forma tra realtà, irrealtà e avanguardia

Dopo le ricerche dei precursori, si affacciano i protagonisti della fase dell’assestamento teorico. Primo fra tutti Jean Epstein, che pone il problema della verosimiglianza e dell’artificio in rapporto con la realtà proiettata nelle pellicole. La verosimiglianza e l’artificio formano una delle dicotomie più importanti del mondo cinematografico, e a seconda di quale delle due sia presente, decidono se un film sia artistico (se basato sull’artificio) o commerciale (se basato sulla verosimiglianza).
I formalisti russi aggirano il problema del cinema in rapporto con la realtà circoscrivendo il dilemma entro i ristretti confini della forma.
Ad esempio Victor Sklovskij afferma che il cinema, in quanto opera d’arte, può essere percepito e compreso solo associandolo per confronto ad altre opere d’arte. La forma di un’opera d’arte è infatti determinata dal rapporto con altre forme, esistenti prima di essa. Una nuova forma d’arte non nasce per esprimere un nuovo contenuto, ma per meglio esprimere il contenuto che una vecchia forma d’arte non è più in grado di esprimere, avendo perso il suo valore artistico, quindi la sua capacità di veicolare un messaggio.
Boris Tomasevskij parla, anche se riferendosi alla letteratura, di genere e di generi, e fa una osservazione interessante anche per il mondo del cinema. Il russo parla della comparsa del genio come leva che rovescia il canone dominante, e dell’impossibilità di classificare i generi secondo una logica compiuta e immutabile, perché soggetta a mutamenti temporali.
Osip Brik riprende il tema del realismo soffermandosi sull’aspetto del progresso tecnico, con le sue conseguenze positive e negative. In effetti, come si può affermare di essere in grado di riprodurre fedelmente la realtà se manca ancora il suono e il colore? È vero che qualcosa cambierà nel 1926 con “The Jazz Singer”, primo film musicato e a tratti parlato, ma siamo ancora lontani.
Dziga Vertov lancia il kinoki, il cineocchio, con il quale vorrebbe organizzare il mondo visibile, forzando con il montaggio la realtà visibile, cogliendo gli aspetti che l’occhio umano non riesce a inquadrare. Non si registra ciò che capita sotto l’obiettivo, non si riproduce la realtà ma la si produce.
Meno sperimentale e più riflessivo è il regista Lev Kulesov, che si sofferma sul concetto e sulla pratica del montaggio con lunga pazienza e tanto scrupolo teorico. Kulesov possiede la rara dote dell’essenzialità, che gli consente di cogliere la sostanza del procedimento di montaggio, ricavandone tutti i possibili echi teorici, tra cui quello fondamentale della capacità intrinseca del montaggio di mettere in evidenza certi elementi, così come di metterne altri in secondo piano, così ancora come di donargli una nuova, diversa, verità. Il montaggio spesso sopperisce anche alle riserve di espressività mimica di cui già parlava Ejchenbaum, che dimostrò come in fondo fossero ristrette le capacità mimiche di un essere umano, se confrontate all’enorme numero di sentimenti che prova. Vedi anche l’esperimento di Ivan Mozzuchin.

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