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Critica contro il cinema politico italiano

Critica contro il cinema politico italiano


Il cinema civile o politico degli anni ’60 e ’70 è una denominazione sotto la quale rientrano i film diretti in quel periodo da Gillo Pontecorvo, Francesco Rosi, Elio Petri, Giuliano Montaldo e Damiano Damiani. Tra questi autori ci sono molte differenze anche in termini di ricezione critica.
In questa sede riduco la mia analisi alla ricezioni di alcuni film di Petri. Fino al film "La proprietà non è più un furto" del 1973, Petri vede da un alto i grandi giornali di opinione e i quotidiani dei partiti di sinistra che lo difendono e celebrano come uno dei più grandi rappresentanti del cinema di impegno civile, dall’altro le riviste di cinema legate all’estrema sinistra lo attaccano da più fronti. LPNEPUF rappresenta un cambiamento perché anche la grande stampa abbandona il regista. Tutto ciò porta Petri a reagire in maniera spropositata in attacco alla critica, da qui nasce una delle polemiche tra autori e critici più significative della prima parte degli anni ’60. il discorso critico sul cinema politico del periodo esprime norme e valori estetici estremamente precisi. È un  discorso di gusto, quindi spesso crudele. Come Bordieau dice il gusto è uno dei modi in cui la crudeltà si converte in una pratica sociale accettata.
Sulle riviste di cinema l’attacco contro il cinema politico è condotto attraverso due paradigmi. Uno è quello della critica cinematografica estremamente politicizzata (la rivista Ombre rosse). L’altro è quello della critica infila, comunque impegnata (Filmcritica e Cinema & Film). Due paradigmi quindi: il paradigma politico, e il paradigma estetico.
Il paradigma politico si basa su tre argomenti che attaccano il cinema di Petri come prodotto organico della cultura della sinistra storica: 1. l’argomento della spettacolarizzazione (la comicità e la caratterizzazione spettacolare sono condannate in nome di una maggiore necessità di realismo e di adesione ai moduli del cinema documentario militante); 2. l’argomento dell’assenza dell’analisi di classe (i film politici degli anni ’60 non sono autenticamente marxisti. A Petri non interessa la coscienza di classe ma il problema generico dell’alienazione); 3. l’argomento del pessimismo teorico (non c’è soluzione all’alienazione dell’operaio-massa).
Le ragioni per cui l’operaio diventa un luogo di tabù per la rappresentazione sono apparentemente politico-morali.
Il paradigma estetico attacca il cinema civile a partire da una serie di posizioni teoretiche. Su Filmcritica denunciare l’equivoco del film politico significa collocare il problema dei contenuti politici sul piano del linguaggio. Gli argomenti principali del paradigma estetico sono tre: 1. l’argomento materialista (il cinema civile italiano non si interroga sull’ideologia dell’apparato delle pratiche significanti; la poca riflessività porta con se uno sfruttamento inconsapevole delle risorse spettacolari); 2. l’argomento dello stile come costrizione (il cinema civile di Petri etc, è considerato autoritario nella struttura e nel senso figurativo, la deformazione espressionista della realtà si oppone all’interpretazione della realtà e produce una riduzione delle possibilità interpretative da parte dello spettatore) ; 3. bisognerebbe indagare i legami tra l’argomento dello stile come elemento spettacolare- convenzionale e come elemento di costrizione dell’interpretazione, da un lato e l’eredità della critica francese degli anni ’50 e ’60 dall’altro; 4. l’argomento dell’impurità (questo argomento è la conseguenza dei due precedenti. Proprio perché il cinema politico di Petri è poco autoriflessivo esso è anche un esempio di cattivo gusto. Qui le norme estetiche si convertono in enunciati di gusto espliciti).

Tratto da LO STILE CINEMATOGRAFICO di Laura Righi
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