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GAP, Turchia, Siria ed Iraq

L’ Eufrate nasce nel sud-est della Turchia ed ha una lunghezza di 2.700 km. Si trova per l’88% in territorio turco, per il 12% in Siria.
Il Tigri nasce nel sud-est della Turchia; il maggiore afflusso viene dagli affluenti iracheni. Si trova per il 51,8% in Turchia, per il 49,2% in Iraq.
I 2 fiumi si congiungono nei pressi della città di Qurna, dove formano il Shatt al-Arab, che sfocia nel Golfo Persico.

La dialettica turco-siriana “acqua con curdi – curdi contro acqua” è stata riproposta in maniera più energica:
da un lato, l’acqua delle falde idriche situate nei pressi delle sorgenti dei fiumi, trasformata dai turchi in strumento strategico;
dall’altro, le basi dei guerriglieri curdi del Pkk, che rappresentano uno strumento di pressione in mano alla Siria, la quale si dichiara vittima della sua posizione a valle nel bacino dell’Eufrate.
Forse la Turchia (già abituata a intervenire fuori del suo territorio) sta tastando il terreno della frontiera siriana, mettendo così alla prova il regime siriano relativamente isolato.
Nel 1998, infatti, i dirigenti siriani hanno ceduto, firmando un accordo che mettesse fine alla tensione.

Frattanto, procede la realizzazione di piccoli, medi e grandi progetti idraulici. La situazione più interessante si presenta probabilmente nei bacini dei principali fiumi del Medio Oriente (il Tigri e l’ Eufrate), dove sono in corso di esecuzione grandi progetti simili nei loro obiettivi, nelle dimensioni, nell’impatto economico, sociale, geopolitico, spaziale e ambientale. Questi progetti sono stati elaborati e avviati negli anni ’60-’70 in:
Turchia → GAP e Keban
Siria → progetto Eufrate
Iraq → sistemazione idraulica basata su piani inglesi dell’inizio de secolo, rivisti e attualizzati
Tutto ciò comporta un nuovo paesaggio, spazi già profondamente modificati, aspetti positivi immediati, ma anche effetti incerti, dei quali si potrà trarre un bilancio solo a lungo termine.

La Turchia, con i suoi mari (Mar Nero, Egeo) e i suoi 4 bacini è oggi considerata un paese relativamente favorito dalla presenza di acqua, sia superficiale sia sotterranea: una sorta di grande serbatoio idrico, se paragonata alle zone semidesertiche dell’altopiano arabico e del Vicino Oriente.
Le risorse idriche superficiali sono considerevoli, pari a 186 km3, e sono utilizzate più per la produzione di elettricità che per l’irrigazione.
Anche le risorse idriche sotterranee sono notevoli: si valutano in 12,2 km3 e per la metà sono già sfruttate.
La Turchia ha scoperto l’importanza dell’acqua, forse la sua maggiore ricchezza, nel momento in cui le è stata contestata (oggi dalla Siria), allorché ha voluto trarre vantaggio da alcuni fiumi frontalieri.
Nel 1998 si contavano in Turchia non meno di 193 dighe e di 55 centrali idroelettriche. Anche per l’irrigazione si annunciano grandi progetti, su una superficie globale di 78 milioni di ettari.

Si profila un paese disseminato di dighe, nel quale i settori irrigati si moltiplicano: dal punto di vista degli ingegneri si tratta di un esemplare dominio sull’acqua. Dominio, tuttavia, che può suscitare dubbi per i suoi effetti a lungo e medio termine, in particolare sugli equilibri/squilibri ambientali, derivanti dall’impatto sul clima, dal carico alluvionale nei numerosi laghi artificiali, per non parlare delle ripercussioni economiche e degli sconvolgimenti sociali, gravidi di conseguenze sulle culture e sui mondi tradizionali, soprattutto in zone in cui si praticavano il nomadismo, l’allevamento del bestiame, l’agricoltura estensiva.
Poiché le forze armate turche sono state in qualche modo sollecitate ad entrare nel gioco diplomatico relativo alle questioni dell’acqua, bisogna sottolineare il ruolo centrale dell’esercito nella politica interna della Turchia, ma anche quello, sempre attivo, da esso svolto al di fuori del paese. Bisogna anzitutto considerare il punto di vista turco circa la diplomazia: un equilibrismo abbastanza complicato, basato sull’alternanza del negoziato e della repressione, delle armi e delle parole. L’esercito turco è largamente coinvolto nella dimensione internazionale per il suo ruolo attivo nella Nato e, in modo autonomo, per l’intervento a Cipro. Le forze armate turche agiscono regolarmente al di fuori dei confini della Turchia, nell’Iraq settentrionale per la repressione dei curdi e recentemente anche in Iran. E minacciavano di fare altrettanto in Siria.
L’esercito è costantemente presente anche nella vita politica interna: fiero del ruolo che si attribuisce di protettore dei valori repubblicani, interviene spesso a suo arbitrio.
Nella politica di repressione contro i curdi, l’esercito è costantemente impegnato sul terreno di pesanti operazioni di rastrellamento, soprattutto nel Sud-Est, dove continua ad essere in vigore lo stato di emergenza. Le forze armate operano in particolare nella zona del GAP e nel bacino del Tigri: qui, le condizioni di insicurezza e ossessiva presenza delle forze dell’ordine, di estrema periferia del paese, di insufficienza delle infrastrutture, di risorse poco valorizzate, non sono favorevoli ad un processo di sviluppo e si verifica un flusso migratorio verso territori più ospitali per il loro clima, le condizioni di vita, la libertà di movimento.
Un altro aspetto del ruolo dell’esercito turco è rappresentato dall’ accordo militare tra Turchia ed Israele, firmato nel 1996, che ha provocato le reazioni dei paesi arabi, in particolare della Siria. Tra le questioni affrontate, l’acqua ha avuto un posto importante: a quanto sembra, è stato rilanciato un vecchio progetto (il progetto Manavgat) che prevede l’esportazione in Israele di acqua turca mediante navi-cisterna o contenitori galleggianti trainati da rimorchiatori, eventualmente scortati dalla marina militare. Esso dovrebbe interessare anche la Giordania e la Palestina, se si trovasse una soluzione tecnica per incanalare l’acqua verso zone lontane dai porti in cui viene scaricata e immagazzinata. La Siria, che ha denunciato con violenza il patto militare turco-israeliano, si sente accerchiata, tanto più in quanto sospetta la Giordania di voler diventare il possibile partner di un accordo triangolare.

La Siria si troverà esclusa dal progetto Manavgat; come forma di pressione, potrà soltanto proseguire la sistemazione idraulica del Ghab, oppure aspettare una ipotetica soluzione al problema della spartizione delle acque dell’Eufrate, eventualmente in un nuovo quadro politico, militare ed economico del Medio Oriente.

Il GAP (Great Anatolian Project) riguarda una piccola regione della Turchia, la parte sud-orientale dell’Anatolia:
73.000 km2 = 9,5% del territorio
5,5 milioni di abitanti = 8,5% della popolazione.

Si tratta di un piano di sviluppo regionale, i cui obiettivi furono definiti nel 1977.
Il GAP deriva dalla concezione tecnica di ingegneri, diretta sia alla produzione idroelettrica sia all’irrigazione di vaste terre rurali. Benché prevedesse un uso multiplo delle acque e un coordinamento, il progetto non teneva conto dell’enorme impatto sull’ambiente e sulla società della regione, né dell’aspetto internazionale delle acque dei 2 mitici fiumi e delle falde freatiche situate nei pressi della frontiera siriana, già abbondantemente sfruttate per l’irrigazione.
Per la sua dimensione tecnica, il GAP è di gran lunga il maggior progetto idraulico turco e uno dei maggiori del mondo: i 13 sotto-progetti che lo compongono (7 per il bacino dell’Eufrate, 6 per quello del Tigri), ripartiti a seconda delle opere e delle zone da irrigare, prevedono infatti la realizzazione di 22 dighe e di 19 centrali idroelettriche, tra cui l’impianto Atatürk = una delle 10 maggiori dighe del mondo. Alla costruzione di questa diga è seguito, da una parte, il timore di un attacco vendicativo da parte di Saddam Hussein; dall’altra parte, le dichiarazioni dei ministri turchi, secondo i quali “i 2 fiumi hanno le fonti in territorio turco; dunque la Turchia è libera di gestirli come vuole”.
Il costo del progetto, la cui conclusione è prevista tra il 2015 e il 2020, si aggira attorno ai 32 miliardi di dollari.
Mentre l’attuazione di grandi e piccole opere procedeva secondo il ritmo della fattibilità, il governo turco, alla metà degli anni ’80, decideva di assumere un nuovo orientamento, di ispirarsi ad una nuova filosofia di approccio: lo sviluppo integrato, lo sviluppo sostenibile, lo sviluppo regionale globale, nel quale gli aspetti umani e sociali potessero avere un posto importante. L’ amministrazione del GAP, creata a questo scopo, è stata una sorta di rivoluzione: l’influenza degli ingegneri è stata sostituita da quella di sociologi, urbanisti, cartografi, impegnati nello studio dei territori interessati dal progetto.
ES: al GAP viene fatto carico dei problemi sociali connessi all’esproprio dei villaggi inondati in seguito alla realizzazione delle dighe
Questa operazione è sicuramente coraggiosa e dimostra la disponibilità di una parte della Turchia ad un approccio moderno nei confronti dello sviluppo e della sistemazione del territorio. Eppure, non ci si può non chiedere se esso non ha un altro obiettivo: se non il controllo delle popolazioni locali, almeno il tentativo di conquistarle con questi bei progetti che non possono certo suscitare alcuna ostilità.
NB: è infatti nelle zone curde che si sviluppa una gran parte del progetto GAP, il quale non ha peraltro ancora interessato le zone più sensibili della regione e del paese.
Bisognerà attendere la realizzazione della grande diga di Ilisu, sul Tigri (alta 120 m) per constatarvi un effetto assai particolare = la divisione del territorio curdo operata dalle acque del lungo lago artificiale e dalle sue ramificazioni, che potrebbe portare a una forte opposizione locale, ma anche a una mobilitazione internazionale di militanti pro-curdi e di ecologisti. Poiché l’obiettivo è importante, si può difficilmente immaginare la soppressione del progetto.
D’altra parte, questo grande serbatoio e, soprattutto, i numerosi progetti di irrigazione nel bacino del Tigri dovrebbero provocare la diminuzione della già limitata portata del fiume e dunque creare effetti negativi in Iraq. In base ad alcune stime, a causa del GAP:
l’ Iraq riceverebbe il 90% delle acque in meno
la Siria perderebbe il 40% delle acque

Tratto da GEOGRAFIA POLITICA ED ECONOMICA di Elisa Bertacin
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