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Rapporto tra Codice, Costituzione e Unione Europea in Italia


Già all’inizio del XX secolo cominciano in Italia i lavori per la riforma dei due codici (civile e di commercio) e proseguono per anni rigorosamente divisi.
Solo nel 1941 la duplicità viene meno: nel 1942 viene promulgato un nuovo codice civile che assorbe in sé la materia commerciale, la quale rappresenta il nucleo dei libri IV (delle obbligazioni) e V (del lavoro, ove sono disciplinate impresa e società).
L’unificazione nel codice del 1942, pur compiendosi sotto il nome del diritto civile, è però di impronta schiettamente commercialistica.
Le nuove norme generali del libro IV, che valgono per tutte le obbligazioni, sono quelle della tradizione dei mercanti, non quelle di ius civile.
In altri termini, la classe imprenditoriale non rinunzia al suo diritto speciale, ma, prevalendo sugli altri ceti detentori della ricchezza, ne ottiene la generalizzazione all’intera società.
Il nuovo codice sopravvive alla caduta del fascismo in quanto contiene una disciplina legata a interessi economici che prescindono da una specifica forma di rappresentazione politica.
Più profondo è l’impatto del codice con la Costituzione repubblicana del 1948.
Di fatto, però, le norme costituzionali attinenti alla sfera economica sono frutto di un compromesso tra le grandi forze emerse dalla Resistenza (cattolica, marxista e liberale), compatibile con le disposizioni vigenti.
La Costituzione più che delineare in positivo un modello di sistema economico esclude l’adozione di una delle due forme estreme allora contrapposte: né economia pura di mercato, né economia socialista con collettivizzazione della proprietà e dei mezzi di produzione.

Tratto da DIRITTO COMMERCIALE di Stefano Civitelli
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