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Una semiotica del vestito


Nella nostra analisi della distinzione tra uniformi e tute è emersa in nuce la mappa di una semiotica del vestito posta sotto l’egida della sua funzione protesica. Cerchiamo qui schematicamente di presentarla, prendendo come base teorica la semiotica del corpo elaborata da Jacques Fontanille (2004). In particolare, ricordiamo che in questo fondamentale contributo teorico, il semiotico limo sino ha evidenziato come le due macrofigure fondamentali della corporeità sono da una parte la carne, sede della sensomotricità e perno dell’ancoraggio deittico, e dall’altra l’involucro-pelle, il quale ha quattro caratteristiche fondamentali: a) garantisce una forma coesa al corpo che si di spiega nello spazio; b) è un contenente rispetto al contenuto della carne; c) espleta una funzione bidirezionale di filtro nelle relazioni tra interno (carne) e esterno (mondoambiente); d) funge da superficie di iscrizione rispetto alle tracce di eventi esogeni (ad esempio, ferite) o endogeni (reazioni della carne).
Il vestito, per quanto rivesta indubbiamente una funzione protesica, è sempre informato anche da una tentazione ad autonomizzarsi come oggetto a sé stante. Tale autonomizzazione è solo tensiva e mai effettivamente perseguibile in toto, dato che lo statuto del vestito prevede che esso sia oggetto in grado di esemplificare le proprie proprietà e di assurgere alla funzione che lo definisce solo quando è indossato. Per esempio, il vestito nasce da costrizioni inalienabili dipendenti dalla specifica morfologia della corporeità; anzi, la sua stessa forma dipende da una “tensostrutturalità” niente affatto autonoma, dato che questa è regolata dai punti d’appoggio che esso predispone rispetto al corpo.
Nei limiti di questo scritto ci limitiamo a mettere in campo il modello di riferimento seguente:

IL VESTITO COME INVOLUCRO SECONDO

a) funzione protesica (formula embraiata: riassunzione):
i) magnifica (o occulta) le forme del corpo;
ii) si pone come agente di mediazioni (funzione di filtro);
iii) si pone come superficie d’iscrizione sostitutiva;
iv) si pone come contenente (rispetto al corpo stesso);

b) autonomizzazione relativa (formula debraiata: proiezione):
i) il vestito si emancipa dal corpo e sviluppa una propria configurazione e un’occupazione dello spazio a sé stante;
ii) la superficie esterna del vestito funge da filtro rispetto alla parte interna;
iii) il vestito si pone come superficie che si offre a iscrizioni che pertengono al vestito stesso;
iv) il vestito diviene contenente della propria materia ed eventualmente di altri oggetti.

Il vestito diviene inevitabilmente una interpretazione del corpo, di cui possiamo sottolineare qui almeno tre aspetti:
1. Il corpo viene colto come configurazione da interpretare, secondo una serie di costrizioni che esso stesso pone.
2. Il vestito ri-racconta il corpo, offrendo un nuovo accesso ai suoi valori e agli effetti di senso che sarebbe in grado di attualizzare.
3. Il vestito media la comunicazione della forma di ascrizione identitaria del corpo nel mentre magnifica la nostra capacità di renderlo una prassi comunicativa estensiva a pieno titolo; ciò significa che 1’abbigliamento ha in sé un aspetto metacomunicativo.
La relazione tra vestito e movimento del corpo può essere colta anche dalla prospettiva di un osservatore esterno; in tale prospettiva è particolarmente interessante lo studio del rapporto tra aderenza/inaderenza del vestito e movimento del corpo; una prima disamina di questa relazione potrebbe mettere in luce almeno i seguenti aspetti:
a) più un vestito è aderente più sembra seguire la morfologia del corpo lungo il suo movimento;
b) l’inaderenza sembra invece consentire un’autonomizzazione di movimento da parte del vestito;
c) tuttavia, dobbiamo considerare una posizione mediana che è quella dello scivolamento del vestito lungo il corpo, pur mantenendo l’aderenza;
d) una quarta possibilità è quella del vestito che seconda il movimento del corpo, ma lo tiene in memoria oltre la terminatività del gesto corporeo che lo ha agito.

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