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La conferenza della pace, 1919


Un compito di eccezionale difficoltà era quello che attendeva gli statisti impegnati nella conferenza della pace, i cui lavori si aprirono il 18 gennaio 1919 nella reggia di Versailles e si protrassero per oltre un anno e mezzo: si doveva ricostruire un equilibrio europeo. Quando la conferenza si aprì, era convinzione diffusa che la sistemazione dell’Europa postbellica si sarebbe fondata essenzialmente sul programma indicato da Wilson nei suoi “quattordici punti”. In pratica, però, la realizzazione del programma wilsoniano si rivelò assai problematica. Il contrasto tra l’ideale di una pace democratica e l’obiettivo di una pace punitiva risultò evidente soprattutto quando furono discusse le condizioni da imporre alla Germania. I francesi non si accontentavano della restituzione dell’Alsazia-Lorena, ma chiedevano di spostare i loro confini fino alla riva sinistra del Reno: il che avrebbe significato l’annessione di territori fra i più ricchi e popolosi della Germania. Ma questi progetti incontravano l’opposizione decisa di Wilson e quella, meno esplicita, degli inglesi, contrari per lunga tradizione allo strapotere di un unico Stato sul continente europeo. Clemenceau dovette dunque accettare la rinuncia al confine sul Reno. La Germania potè così limitare le amputazioni territoriali ma subì, senza nemmeno poterle discutere, una serie di clausole che sarebbero state sufficienti a cancellarla per molto tempo dal novero delle grandi potenze. Il trattato di pace con la Germania, il primo e il più importante fra quelli conclusi nella conferenza di Versailles, fu firmato il 28 Giugno 1919. Si trattò di una vera e propria imposizione (un “Diktat”, come allora fu definito con termine tedesco), subita sotto la minaccia dell’occupazione militare e del blocco economico. Dal punto di vista territoriale il trttato prevedeva, oltre alla restituzione dell’Alsazia-Lorena alla Francia, il passaggio alla ricostituita Polonia di alcune regioni orientali abitate solo in parte da tedeschi, e la trasformazione della città di Danzica, abitata in prevalenza da tedeschi, in “città libera”. La Germania perse inoltre le sue colonie, spartite tra Francia, Gran Bretagna e Giappone. MA la parte più pesante del Diktat era costituita dalle clausole economiche e militari: la Germania dovette impegnarsi a rifondere ai vincitori, a titolo di riparazione, i danni subiti in conseguenza del conflitto. Per finire, la Germania fu costretta a lasciare “smilitarizzata” l’intera valle del Reno, che sarebbe stata presidiata per quindici anni da truppe inglesi, francesi e belghe. Un problema completamente diverso era costituito dal riconoscimento delle nuove realtà nazionali emerse dalla dissoluzione dell’Impero asburgico: la nuova Repubblica di Austria si trovò ridotta entro un territorio di appena 85.000 km quadrati. Un trttamento severo toccò all’Ungheriqa che, costituitasi in repubblica nel novembre ’18, perse non solo tutte le regioni slave fin allora dipendenti da Budapest, ma anche alcuni territori abitati in prevalenza da popolazioni magiare. A trarre vantaggio dal crollo dell’Impero asburgico, oltre all’Italia, furono soprattutto i popoli slavi: i polacchi della Galizia si unificarono alla nuova Polonia; i boemi e gli slovacchi confluirono nella Repubblica di Cecoslovacchia; gli slavi del Sud si unirono a Serbia e Montenegro per dar vita alla Jugoslavia. Un problema particolarmente delicato per gli Stati vincitori era infine quello dei rapporti con la Russia rivoluzionaria. Le potenze occidentali, com’era naturale, imposero all Germania l’annullamento del trattato di Brest-Litovsk, ma non riconobbero la Repubblica socialista, anzi cercarono di abbatterla aiutando in ogni modo i gruppi controrivoluzionari. Furono invece riconosciute e protette le nuove repubbliche indipendenti che si erano formate con l’appoggio dei tedeschi nei territori baltici perduti dalla Russia: la Finlandia, l’Estonia, la Lettonie e la Lituania. La nuova Russia si trovò così circondata da una cintura di Stati-cuscinetto che le erano tutti fortemente ostili: un vero e proprio cordone sanitario che aveva la funzione di bloccare ogni eventuale spinta espansiva della Repubblica socialista e, con essa, ogni possibile contagio rivoluzionario. L’istituzione della Società delle nazioni, già proposta nei “quattordici punti” fu ufficialmente accettata da tutti i partecipanti alla conferenza di Versailles. Il nuovo organismo, che prevedeva nel suo statuto la rinuncia da parte degli Stati membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti, il ricorso all’arbitrato, l’adozione di sanzioni economiche nei confronti degli Stati aggressori, non aveva precedenti nella storia delle relazioni internazionali, ma il colpo più grave e inatteso la Società delle nazioni lo ricevette proprio dagli Stati Uniti, cioè dal paese che avrebbe dovuto costituirne il principale pilastro. Il Senato degli Stati Uniti respinse nel marzo 1920 l’adesione alla Società delle nazioni e fece cadere anche l’impegno assunto da Wilson circa la garanzia dei nuovi confini franco-tedeschi. Cominciava per gli Stati Uniti una stagione di isolazionismo, ossia di rifiuto delle responsabilità mondiali e di ritorno a una sfera di interessi continentale. Quanto alla Società delle nazioni, essa finì con l’essere egemonizzata da Gran Bretagna e Grancia e non fu in grado di prevenire nessuna delle crisi internazionali che costellarono gli anni fra le due guerre.






Tratto da PICCOLO BIGNAMI DI STORIA CONTEMPORANEA di Marco Cappuccini
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