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Un modello di produzione snella solo per il Giappone?

Intorno agli anni ’80 e ’90 il modello giapponese è penetrato in Occidente provocando un intenso dibattito soprattutto sulle conseguenze sociali e culturali che esso comporta. Il toyotismo è quindi peculiare del Giappone?
E' problematico dare una risposta semplice a questa domanda.

Da una parte vi è infatti l'esempio degli stabilimenti occidentali di fabbriche giapponesi, ove manodopera e management indigeni operano secondo i criteri sviluppati dalle case madri. I cosiddetti transplants (termine traducibile letteralmente in "trapianti") della Honda, Toyota, Nissan che operano negli Stati Uniti, in Canada, Messico ed Europa producono automobili con una produttività e qualità di poco inferiore a quella giapponese e molto superiore alle case locali.  Ciò dimostrerebbe che la produzione flessibile è esportabile anche da noi.  Da un'altra angolazione pare che, per le aziende occidentali, l'abbandono del taylorismo sia uno sforzo gigantesco. Rimodellare l'organizzazione aziendale richiede infatti l'acquisizione di un approccio culturale alla produzione completamente differente.  Le fabbriche europee ed americane si basano, in fin dei conti,  su principi semplici e sedimentati nel tempo: chi sta alla catena non pensa, altri pensano per lui.  Ciò comporta la necessità di aumentare a dismisura il numero degli operatori indiretti (capi, addetti al controllo di qualità, guardiani, ecc.) che non aggiungono nessun plus-valore alle merci prodotte.  Anche il rapporto con i fornitori ed i clienti è, a differenza che in oriente,  improntato alla massima diffidenza: agli uni si chiede di produrre parti al prezzo più basso possibile, senza nessuna garanzia di continuità; agli altri di acquistare automobili secondo un contratto capestro:  prezzo più alto possibile, modificabile senza preavviso, tempi di consegna spesso lunghissimi ed incerti.

In Europa l’individuo era inserito in un contesto societario, in Giappone l’individuo diventava soggetto, ed era inserito non più in una società, ma in una comunità; diventava cultura stessa.
Laddove si tenta di superare il taylorismo gli ostacoli maggiori sono proprio quelli di ordine culturale. A livello del management, ma anche nelle relazioni di lavoro.  Il caso Fiat è esemplare. La casa torinese, nel tentativo di introdurre un sistema produttivo "post-fordista", guarda al sindacato come un possibile viatico di consenso dimenticando che il consenso complessivo dei lavoratori verso l'azienda non dipende dal sindacato , ma bensì dalla coerenza tra obiettivi che ci si prefissa e comportamenti reali. E', in fin dei conti, un problema di fiducia. L'opzione "collaborazione contro riconoscimento" offerta al sindacato è semplicistica andando a discapito di chi lavora.  La produzione snella è tutt'altro affare. Ed a volte può essere qualcosa da cui il lavoratore  deve difendersi.  Avere delle responsabilità, se da una parte arricchisce il lavoro, dall'altra, può introdurre forme inedite di alienazione. Specialmente qualora l'organizzazione aziendale non garantisca al lavoratore il necessario grado di autonomia per far fronte ai nuovi compiti che gli vengono assegnati. Inoltre vincoli strutturali e pressioni sociali conducono a ritmi spesso ossessivi.
Negli anni ’90 diverse aziende del settore automobilistico europeo (Fiat, Renault, Volkswagen) hanno imboccato la strada della produzione snella, cercando però di evitare la coercizione strutturale insita nel modello giapponese. Ciò fu possibile con l’esteso uso di tecnologie avanzate che attenuano lo sfruttamento intensivo della manodopera praticato in Giappone; ricercando accordi con il sindacato per coinvolgere la manodopera in proposte di miglioramento; ricorrendo a forme di organizzazione modulare della produzione (cellular manufacturing), adatte a gestire con rapidità e flessibilità le anomalie di processo e prodotto.

Questi miglioramenti portarono ad una “via occidentale alla produzione snella” che si differenzia dalla via giapponese per il modo graduale con cui procede, e per le varie forme di ibridazione dell’approccio giapponese con approcci di altra origine.
Si sceglie insomma di privilegiare la tecnologia piuttosto che l’organizzazione.
Con la Fabbrica Integrata, la Fiat esprime la sua interpretazione di produzione snella, dando centralità al lavoro umano coinvolgendo gli operai, questo grazie alle grandi innovazioni tecnologiche di quegli anni, che cambiarono profondamente il modo di lavorare in officina, occorreva infatti minore sforzo, più pulizia, spazio e sicurezza.
Con la terziarizzazione (outsourcig) si ha la cessione ad imprese esterne di fasi e servizi integranti del processo produttivo, che si svolgono in siti appartenenti all’impresa madre. Questo porta al passaggio da Fabbrica Integrata a Fabbrica Modulare: fabbriche e uffici che in passato appartenevano ad una sola impresa, si trasformano in una sorta di condomini di più imprese, che convivono impegnandosi in un progetto comune (un esempio di questa organizzazione è l’aeroporto).

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