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L’ascesa della Macedonia a grande potenza greca

L’ascesa della Macedonia a grande potenza greca

L’ascesa della Macedonia a grande potenza greca si confonde con i successi personali di Filippo II come comandante dell’esercito: appena sei anni dopo il rientro in patria, all’incirca all’età di ventiquattro anni, Filippo compì una vittoriosa campagna contro i barbari Illiri, che avevano valicato i confini macedoni (358); poi s’impadronì di Anfipoli (357), la vecchia colonia di Pericle da tempo sfuggita al dominio ateniese, e con essa ebbe garantito il controllo delle miniere d’argento di quella zona, che erano le più importanti della Grecia e che resero immediatamente l’erario macedone il più florido del continente. Ciò naturalmente gli provocò l’inimicizia di Atene, ma era un rischio che la potenza militare macedone poteva facilmente correre. Nel 354 dovette registrare una sconfitta contro i Focesi nell’ambito della guerra di questi con la coalizione tebana, ma nel 353 egli interveniva nuovamente in Tessaglia e questa volta riportava una decisa vittoria contro i Focesi che, fra l’altro, permetteva alla Macedonia di estendere la sua area d’influenza anche alla Tessaglia. Resisi contro del pericolo ormai palese, ateniesi e spartani intervennero immediatamente bloccando Filippo alle Termopili e, almeno per il momento, la Grecia centrale fu salva. Ma Filippo volse allora la sua brama di conquista a nord-est e mosse contro al Calcidia, che lasciata sola da Atene (dove era al potere la colomba Eubulo) fu presto annessa al Regno macedone. E a questo punto, anche coloro che fino all’ultimo non avevano voluto ammettere la minaccia macedone, dovettero riconoscere che Filippo era ormai la spada di Damocle della grecità. 

Non si deve d’altronde pensare che in Grecia tutti vedessero Filippo come il male assoluto. La classe possidente, ad Atene come in molte altre polis, sapeva che una vittoria di Filippo avrebbe indebolito il partito democratico ed anche fra il popolo molti erano stanchi del perenne stato di guerra che caratterizzava il regime delle polis. Alle orazioni di Demostene - il più grande oratore della grecità diventato famoso per essere riuscito a far esiliare Eubulo, il fautore della politica di pace con la Macedonia, e per essere alla fine riuscito a convincere un’Atene ritrosa ad opporsi al macedone, sostenendo che Filippo rappresentava la fine dell’indipendenza, della sovranità e della libertà di ogni greco - a lui il sovrano macedone contrapponeva una promessa di pace per tutti i greci: sotto il suo comando le polis avrebbero mantenuto la loro autonomia ma non avrebbero più mosso guerra le une contro le altre. Del resto Filippo, per quanto proveniente da un’area ai confini del mondo greco, non era un barbaro e già molte polis della Grecia settentrionale si dichiaravano, per paura o per opportunismo, sue vassalle; inoltre tutti si rendevano contro che fiaccate e divise le polis non potevano opporre alcuna efficace resistenza alle armate macedoni. Così, anche sfruttando l’appoggio inconsa-pevole dei molti che, guardando solo all’ora presente, restano nell’inerzia di fronte all’avanzata macedone, alla fine prevalse la linea favorevole alla pace con la Macedonia, nell’attesa magari, di prepararsi meglio allo scontro decisivo (poiché ormai tutti avevano dovuto dare ragione a Demostene quando questi diceva che l’obbiettivo di Filippo era la conquesta di tutta la Grecia).

Così nel 346 veniva conclusa la pace di Filocrate, per mezzo della quale Filippo accondiscen-deva ad abbandonare la Tracia in cambio della Focide e della presidenza dell’anfizione di Delfhi, la quale gli garantiva la conduzione dei giochi olimpici, cosa che equilvaleva ad una candidatura alla sovranità su tutta la Grecia. 

Ma la pace non resse: Filippo infatti non evacuò la Tracia, ma anzi tentò la conquista di Bisanzio che, aiutata da Atene, resistette. Atene ritenne dunque infranta la pace di Filocrate e su proposta di Demostene fece spezzare la stele sulla quale era incisa. Filippo allora comprese che era necessario per continuare l’espansione in Grecia sottomettere Atene, ma non potendo competere con essa in mare, decise di attaccarla via terra. Però quando l’esercito macedone passò le Termopili, gli ateniesi compresero che il pericolo era esiziale e dando finalmente ascolto a Demostene, strinsero alleanza con Tebe in funzione antimacedone.

La battaglia che ne seguì ebbe luogo a Cheronea nel 338; due grandi eserciti erano schierati uno di fronte all’altro: quello macedone e quello coalizzato di Tebe ed Atene; a questo punto ai greci era ormai limpidamente chiaro che una sconfitta avrebbe apposto il definitivo sigillo della supremazia macedone su tutte le loro città. Tuttavia furono i macedoni a trionfare, con una vittoria nettissima, che permise loro di impossessarsi definitivamente di tutta la Grecia. 

Sparta, che orgogliosamente si rifiutò di sottomettersi al vincitore e preparò le armi pronta ad un’estrema resistenza, fu risparmiata addirittura da Filippo, il quale si limitò ad invadere la Laconia senza neppure toccare la leggendaria città. Ciò del resto era vantaggioso perché Sparta era ormai troppo indebolita per costituire un pericolo ma era pur sempre abbastanza temibile per legare tutte le altre polis del Peloponneso a Filippo, che diventava così il garante della loro autonomia rispetto a Sparta. Egli del resto si dimostrò straordinariamente intelligente e tollerante verso i greci sconfitti: mentre questi si aspettavano che mettesse a ferro e fuoco la Grecia, Filippo si limitò a chiedere che tutte le polis gli riconoscessero il comando delle loro forze militari, affinché potesse guidare una nuova guerra contro la Persia, e che - sempre per lo stesso nobile fine della ripresa della guerra contro il barbaro -  tutte (le polis) entrassero a far parte di una nuova alleanza panellenica, la Lega di Corinto, che avrebbe avuto in Filippo il suo comandante. Così, grazie a questa politica saggia ed oltremodo generosa, i greci sconfitti accolsero il vincitore quasi a braccia aperte, tirando un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo e rinunciando quasi di buon grado alla sovranità politica in cambio della pax macedone.

Quanto, infine, alle due città che avevano guidato la resistenza finale, anche verso di esse Filippo fu gentile: a Tebe fu imposta la disgregazione della Lega beotica e la presenza permanente di un presidio macedone nella zona; mentre ad Atene, che se pure sconfitta non poteva dirsi vinta in quanto conservava sui macedoni una schiacciante superiorità in mare, ad essa fu solo chiesto di rinunciare a ciò che restava del suo ormai perduto impero marittimo e di divenire membro della Lega di Corinto (cosa che equivaleva ad una dichiarazione di sottomissione alla Macedonia). E Atene accettò: avrebbe certamente potuto resistere, ma sapeva che non potendo in ogni caso vincere contro la Macedonia, la resistenza non avrebbe portato a nulla, e perciò preferì sottomettersi ed accettare le ragionevoli condizioni offerte da Filippo. 

UNA NUOVA ERA

Forse molti greci ancora credevano che in futuro una ribellione generale avrebbe potuto sconfiggere Filippo; o che questi si sarebbe finito da solo combattendo contri i persiani; oppure che tutto sommato la perdita dell’indipendenza politica non era un problema tanto grande; probabilmente solo in pochi ebbero la capacità di comprendere che l’assoggettamento alla Macedonia che avvenne nel 338 avrebbe significato la fine della loro civiltà. La cultura greca si sarebbe diffusa in tutto il Mediterraneo e in tutto il Vicino Oriente, conservandosi attraverso i secoli e traendo senza dubbio un enorme impulso dalla conquista macedone e dall’opera di Alessandro Magno; ma la civiltà greca, quella di Democrito, Socrate e Platone, di Eschilo, Sofocle ed Euripide, quella delle polis per riassumere tutta l’essenza della particolarità greca, quella con la conquista macedone si sarebbe chiusa per sempre. 

Ciò è ben visibile osservando le tematiche della filosofia: Socrate, che visse nell’età d’oro della Grecia e di Atene, l’età di Pericle (V secolo), elaborò un pensiero in cui il centro di tutta la vita è il cittadino, l’uomo ha senso solo all’interno della sua polis. Egli non uscì che tre volte dalle mura di Atene (e sempre per prestare il suo obbligo di soldato della polis) e quando fu condannato preferì morire piuttosto che trasgredire alla legge della città. Già Platone, che invece visse gli effetti della guerra del Peloponneso e le alterne vicende del IV secolo, sviluppò una filosofia che portava la verità nel mondo delle Idee, essendo impossibile ravvisarla in terra; si tenne distante dalla vita politica e predica e ritenne che il mondo greco fosse degenerato nell’amoralità e nel relativismo. Quindi fu la volta di Aristotele, che visse durante la dominazione macedone e fu addirittura precettore di Alessandro e i cui temi filosofici furono già distanti da quelli etico-politici che avevano caratterizzato Socrate e Platone e che rispecchiavano i caratteri della civiltà delle polis. Infine le scuole ellenistiche, che rifuggono apertamente il coinvolgimento nella vita politica e predicarono una chiusura dell’uomo in sé stesso, quasi a simboleggiare la fine del sogno greco e la volontà di chiudersi nella contemplazione del passato ormai sepolto. 

Tratto da STORIA DELLA GRECIA ANTICA di Lorenzo Possamai
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