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La Fenomenologia dello Spirito di Hegel


La Fenomenologia dello Spirito è la storia romanzata della coscienza che attraverso contrasti e dolore, esce dalla sua individualità, raggiunge l’universalità e si riconosce come ragione che è realtà e realtà che è ragione. La coscienza infelice è la coscienza che non sa di essere tutta la realtà, e perciò si ritrova scissa in conflitti da cui è internamente dilaniata. La prima parte della fenomenologia si divide in tre momenti: Coscienza, Autocoscienza e Ragione.

Il punto di partenza della coscienza è la certezza sensibile che, pur apparendo a la più sicura, è la più povera. Essa non rende certi che di questa cosa. Ora, il questo non dipende dalla cosa ma dall’io che la considera. Perciò la certezza sensibile non è che la certezza di un’io universale.

Se dalla certezza sensibile si passa alla percezione si ha lo stesso rinvio all’io universale: un oggetto non può essere percepito come uno, nella molteplicità delle sue qualità, se l’io non prende su di sé l’affermata unità. Se infine si passa dalla percezione all’intelletto, questo vede nell’oggetto un semplice fenomeno. Poiché il fenomeno è solo nella coscienza, la coscienza a questo punto ha risolto l’oggetto in se stessa ed è diventata coscienza di sé, autocoscienza.

Con l’autocoscienza, il centro dell’attenzione si sposta dall’oggetto al soggetto. L’uomo, secondo Hegel, è autocoscienza solo se riesce a farsi riconoscere da un’altra autocoscienza. Tale riconoscimento non passa attraverso l’amore, ma attraverso il conflitto tra le autocoscienze, che si conclude con il subordinarsi di un autocoscienza sull’altra nel rapporto servo-signore.

Il signore è colui che, per la propria indipendenza, ha rischiato la vita fino alla vittoria, mentre il servo è colui ha preferito la perdita della propria indipendenza pur di avere salva la vita. Tuttavia, tale dinamica provoca una paradossale inversione di ruoli. Il signore, inizialmente indipendente, si limita a godere passivamente del lavoro altrui, finendo per rendersi dipendente dal servo. Invece quest’ultimo, nella misura in cui padroneggia e trasforma le cose, finisce per rendersi indipendente.

L’indipendenza del servo passa nei tre momenti della paura della morte, del servizio e del lavoro. Dinanzi alla morte, lo schiavo ha sperimentato il proprio essere. Nel servizio la coscienza si auto-disciplina e impara a vincere i suoi impulsi naturali. Infine, nel lavoro il servo, formando le cose, trova se stesso nella propria opera. La figura del servo-signore è stata apprezzata dai marxisti, i quali hanno visto in essa l’importanza del lavoro e la configurazione dialettica della storia.

Il raggiungimento dell’indipendenza dell’io dalle cose trova la sua manifestazione filosofica nello stoicismo. In esso, tuttavia, l’autocoscienza raggiunge soltanto un’astratta libertà interiore, giacchè la realtà esterna non è negata. Chi pretende di metterla del tutto da parte è lo scetticismo. Tuttavia, in virtù del suo atteggiamento negativo verso l’alterità, esso provoca una scissione fra una coscienza che vorrebbe innalzarsi sulla non-verità della vita e una che se ne scopre vittima.
La scissione fra una coscienza immutabile e una mutevole diviene esplicita nella figura della coscienza infelice e assume la forma di una separazione radicale fra l’uomo e Dio. Così avviene nell’ebraismo, dove l’Assoluto è sentito lontano dalla coscienza ed è un Dio trascendente padrone. Anche nel cristianesimo, la figura di un Dio incarnato è destinata al fallimento.

Manifestazioni di questa infelicità cristiano-medioevale sono le sotto-figure della devozione, del fare e della mortificazione di sé. Ma quest’ultima, la più completa negazione dell’io a favore di Dio, è destinata a trapassare dialetticamente nel punto più alto quando la coscienza si rende conto, lei stessa, di essere Dio. Ciò non avviene nel Medioevo, ma nel Rinascimento.

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