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La penetrazione europea in Cina

La penetrazione europea in Cina

Contemporaneamente alle rivolte, i Qing dovettero anche affrontare un nuovo espansionismo politico ed economico da parte delle potenze occidentali, che intendevano sfruttare il momento di debolezza per ottenere nuove concessioni. La Gran Bretagna e la Francia, cogliendo a pretesto l’assassinio di un missionario e il fermo per contrabbando di un piccolo mercantile, occuparono nuovamente Canton e altre località costiere (1857), costringendo dopo alcuni scontri il governo imperiale a firmare il trattato di Tianjin (1858) e poi -dopo l’occupazione della stessa capitale imperiale- quello di Pechino del 1860, con il quale si concludeva il conflitto, impropriamente passato alla storia con il nome di Seconda guerra dell’oppio. In seguito al trattato di Pechino la Cina si impegnava a pagare una forte indennità e a consentire la libera circolazione al suo interno dei mercanti e dei missionari stranieri (fra l’altro dotati del privilegio dell’extraterritorialità). Oltre a questo venivano stabilite legazioni diplomatiche a Pechino, abolite le tasse doganali, e, soprattutto, aperte al commercio le vie d’acqua interne, consentendo così ai mercantili occidentali di raggiungere tutti i punti economicamente sviluppati del paese.
 
Stimolata dall’esempio anglo-francese, anche la Russia riprese il suo espansionismo. Violando il trattato bilaterale del 1727, essa impiantò alcune colonie lungo la sponda sinistra dell’Amur (Heilongjiang), ovvero strappò illegittimamente il basso coso dell’Amur al Celeste impero che dall’inse-diamento della dinastia mancese era appartenuto alla Cina. Messa in crisi dalle rivolte sul piano interno ed impegnata contro gli anglo-francesi nel sud-est, la dinastia non poté far altro che accettare che 500mila chilometri quadrati di suo territorio passassero sotto il dominio zarista (trattato di Aigun, 1858). La concessione tuttavia non placò l’espansionismo russo che, solo due anni dopo, nel 1860, costrinse la Cina a cedere altri 250mila chilometri quadrati di territorio (trattato di Pechino). Si trattava degli odierni Territori del Litorale: la superficie compresa fra il fiume Ussuri e l’oceano. Questi, come quelli dell’Amur, sono ancor oggi dominio russo. Ultima toccata dell’espansionismo russo fu, nel 1871, l’annessione dei territori a nord del lago Issyk-kul, nell’odierno Kirghizistan. Questi territori tuttavia furono in seguito all’interessamento britannico -e dietro concessioni commerciali e il pagamento di una forte indennità- riconsegnati al governo cinese. 

Intanto nel paese il disagio economico e sociale assumeva toni sempre più foschi. I porti aperti erano cresciuti fino al numero di venti e attraverso i fiumi ed i canali, i prodotti occidentali -ora non più gravati da dazi doganali- giungevano in ogni angolo del paese mettendo in seria difficoltà l’artigianato e l’industria nazionali. Presso alcuni porti si erano addirittura formate le cosiddette Concessioni, vere e proprie enclave straniere amministrate fiscalmente e giudiziariamente da legazioni straniere, dotate di propri corpi di polizia e sottratte all’autorità imperiale. Compagnie commerciali ed istituti bancari, nonché industrie tessili e alimentari, iniziarono ad aprire proprie filiali o stabilimenti presso le enclave e a diffondere i loro prodotti anche servendosi di intermediari cinesi. L’impero era ormai aperto, anzi esposto, al commercio internazionale. 

In questi anni crollò anche l’antico sistema cinese di relazioni con i regni tributari, specialmente con Vietnam e Corea, che da secoli gravitavano nella sfera d’influenza di Pechino. Il primo fu conquistato dai francesi, che, con il trattato di Tianjin del 1885, costrinsero l’Impero a riconoscere la loro sovranità nel più antico regno tributario cinese. Il secondo fu invece strappato dai Giapponesi circa dieci anni dopo. L’Impero del sol levante, infatti, dopo l’eccezionale processo di modernizzazione della seconda metà del XIX secolo, iniziava a sviluppare un forte ed agguerrito espansionismo: nel 1874 esso aveva attaccato Taiwan e annesso le isole Ryukyu (un piccolo arcipelago 300 km ad est di Taiwan nel Mar Cinese Orientale); nel 1876 aveva imposto alla Corea un trattato commerciale umiliante. Nel 1894, cogliendo a pretesto una rivolta anti-nipponica, era intervenuto militarmente in Corea e poi contro la stessa Cina, scesa in campo per difenderla. La guerra si rivelò un’umiliazione per i cinesi, che con il trattato di Shimonoseki (1895) dovettero cedere la sovranità su parti del loro stesso territorio nazionale: la penisola del Liaodong, Taiwan e l’isola di Pescadores (pochi chilometri ad ovest si Taiwan). Alla fine, grazie all’appoggio di Russia, Francia e Germania, il Liaodong fu lasciato alla Cina, che dovette però versare a Tokio una forte somma. Ormai l’Impero era in balia dei giochi di potere fra le potenze. 

LA SPARTIZIONE IN SFERE D’INFLUENZA

Corollario della guerra cino-giapponese e della restituzione del Liaodong fu la spartizione dei territori dell’Impero in sfere di influenza fra le grandi potenze. A catalizzare il processo fu la corsa alla costruzione delle vie ferrate per lo sfruttamento minerario e commerciale delle immense regioni cinesi. In pochi anni (1895-1902) una serie di accordi bilaterali fra le potenze stabilirono la spartizione e procurarono alle varie compagnie straniere appalti per 19 grandi ferrovie per un toltale di ben 10mila chilometri. Così nel 1902 la Manciuria era zona d’influenza russa, lo Shandong tedesca, il bacino del Yangzijiang britannica, il Fujian giapponese, e Guangdong, Guangxi e Yunnan britannica e francese assieme. 

Tratto da STORIA DELLA CINA di Lorenzo Possamai
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