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Il realismo politico nel '600

Dalla metà del ‘500 per tutto il ‘700 si diffonde questa tradizione, in cui elemento centrale è l’interesse. 
All’interno di questo contesto emerge anche il concetto di equilibrio di potenza e si nota come esso si sia esteso dal sistema di città-stato italiano al nascente sistema statuale europeo. 
Nondimeno, J. Haslam sottolinea come questo concetto fosse quasi certamente praticato anche nel mondo antico. L’ignoranza di tale concetto nell’Europa medievale dipende forse dalla discontinuità rappresentata dall’epoca dell’Impero-Papato come principio ordinatore, durante la quale i piccoli Stati non erano liberi di unirsi e opporsi a questi 2 fonti di ordine e potere. 
Quindi, l’equilibrio di potenza divenne un concetto conosciuto e diffuso solo nell’Europa all’inizio dell’epoca moderna, nel momento in cui, entrato in crisi il sistema Impero-Papato, gli Stati si trovano ed essere liberi da ogni legame ⇒ sono liberi di muoversi in base ai rapporti di forza. La situazione che favorì l’emergere di questo concetto come “nuovo principio regolatore” delle relazioni internazionali fu il periodo in Italia, generalmente indicato come caratterizzato da pace e stabilità, compreso tra 
− la Pace di Lodi (1454) 
− l’invasione francese guidata da Carlo VIII (1494) 

durante il quale 5 potenze mantennero un certo equilibrio su tutta la penisola: 
1. Venezia (lo Stato italiano più importante all’epoca) 
2. Milano 
3. Firenze 
4. Roma 
5. Napoli. 

Un elemento chiave che garantiva la stabilità di questo equilibrio era la stabilità di ciascun regime, di ciascun regno o città-stato. Nel momento in cui questa stabilità venne meno, l’invasione fu inevitabile, come affermato da Machiavelli. 
Sebbene però la pratica dell’equilibrio si colloca in Italia, la prima descrizione sistematica di tale principio deve essere collocata in Francia, nell’opera dello statista francese Philippe de Commynes (1488-1501): ciascuna città italiana guardava a che il suo vicino non diventasse troppo potente. 
Questa idea, nata nel contesto semi-chiuso delle città-stato italiane sembra poi essere stata trasportata nel corpo dell’Europa occidentale. Secondo Robertson, la prima manifestazione pratica di questo principio deve essere ricondotta all’elezione del 1519 di Carlo V come Imperatore del Sacro Romano Impero, che riuniva la maggior parte dell’Europa occidentale sotto un unico trono ⇒ gli altri principi europei non potevano rimanere spettatori indifferenti di fronte a questa decisione che toccava da vicino ciascuno di loro. Era dunque loro comune interesse formare una combinazione contro i competitori, e di evitare sia che essi ottenessero un potere troppo grande sia che diventassero una minaccia alla libertà dell’Europa. 
Nel 1605, nell’opera Relatione della Repubblica Venetiana, Giovanni Botero fu il primo ad esporre come e dove un equilibrio si sarebbe potuto formare: dove non c’è una pluralità di principi… l’equilibrio di potenza [contrappeso] non può avere luogo ⇒ se l’intero mondo fosse una sola repubblica o un solo principato, l’arte del contro-bilanciamento sarebbe superfluo e assolutamente inutile: ma data l’esistenza di una pluralità di principi, ne deriva che l’equilibrio di potenza è utile, non come risultato volontario, ma come frutto delle circostanze [per accidente]. Ne consegue, secondo Botero che a ogni uno convenga cercar oppositione alla potenza non solo sospetta, e nimica, ma anche confidente e congiunta seco. 
Alla fine del XVI secolo, la nozione di equilibrio di potenza era fortemente radicato nell’Inghilterra elisabettiana, una potenza minore, in confronto alle potenze continentali. 
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Questo fatto evidenzia come, almeno nella sua originale formulazione politica, l’equilibrio di potenza fosse principalmente uno strumento impugnato dal più debole contro il più forte. 
Questo mezzo fu in effetti una costante della politica estera inglese, a causa della persistente debolezza inglese in relazione alle potenze continentali europee. Per queste ultime, invece, l’equilibrio di potenza rappresentava più che altro un mezzo di scambio, da commerciare nei periodi buoni, e a cui ricorrere nel caso fosse emerso un rivale. 
E la guerra era lo strumento attraverso il quale l’equilibrio doveva essere mantenuto o ristabilito. 
È ovvio che il sistema di città-stato italiano si eclissò come entità indipendente nel momento in cui prima la Francia e poi la Spagna invocarono l’equilibrio di potenza come principio di politica estera per la salvaguardia contro l’egemonia di un altro Stato. 
A questo punto dunque, l’equilibrio di potenza era così universalmente accettato – almeno finché veniva applicato ad altri, non a se stessi – da essere quasi elevato allo status di principio morale. 
Il problema è che, come notato da Pufendorf, un effettivo equilibrio di potenza poteva durare nel tempo solo se veniva condotto in maniera neutrale contro la relativa potenza di ciascun attore del sistema. Invece l’Inghilterra concentrò la sua politica di equilibrio solo in una direzione, ossia contro la Francia. Un motivo di questo si può trovare nell’allargamento della partecipazione politica (evidente in Inghilterra sin dal 1620) ⇒ le passioni collettive della società potevano ora influenzare sempre più le principali decisioni in materia di politica estera. 
Tuttavia, nel momento in cui l’Europa crebbe in popolazione, industria, agricoltura e commercio internazionale, furono individuati i limiti dell’equilibrio, che, in un certo senso, aveva reso l’Europa claustrofobica, proprio come sottolineato da Edmund Burke: l’equilibrio di potenza, l’orgoglio della politica moderna, e originariamente inventato per preservare la pace e la libertà dell’Europa, in realtà ha preservato solo la sua libertà. 
Fu questo il primo attacco moralistico sull’equilibrio di potenza, nel quale Burke identifica l’equilibrio con la più generale condotta delle relazioni internazionali. 
È dunque nel ‘700 che si ha una sistematica formulazione di questo principio, in particolare ad opera di Vattel, uno dei fondatori del diritto internazionale contemporaneo, il quale scrive che le nazioni europee si uniscono per il mantenimento dell’ordine e della libertà. Ciò ha dato origine al nuovo principio dell’equilibrio di potenza. 
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Fin dall’inizio, l’equilibrio di potenza viene giustificato non tanto per il mantenimento della pace, ma in nome dell’ordine e della libertà ⇒ in nome della sicurezza. In nome dell’equilibrio si può persino combattere, ma può anche coincidere con momenti di pace. 
La sfida che mise definitivamente in crisi l’equilibrio di potenza come precetto morale e legale venne dall’applicazione più dubbia del principio stesso: la divisione della Polonia tra Austria, Prussia e Russia nel 1772, 1793 e 1795. Da questo episodio divenne evidente come solo le Grandi Potenze fossero gli attori nel sistema; le altre erano a loro completa disposizione ⇒ per mantenere l’equilibrio tra potenze che volevano espandersi, esse concordarono di “dividersi il resto”, ossia la Polonia, nella totale indifferenza della Gran Bretagna, unicamente preoccupata a vedere confermato l’equilibrio nell’Europa continentale.

Da questo evento derivò l’opera Fragments upon the Present State of the Political Balance of Europe del 1806 di F. von Gentz, nel quale lo statista prussiano delineò una teoria sul funzionamento dell’equilibrio di potenza. Invece di “equilibrio di potenza”, però, von Gentz preferì parlare di counterpoise (= contrappeso), termine che forse meglio esprime la nozione e il funzionamento di tale politica nel XVI secolo. 
Una conseguenza di questo “sistema di contrappesi” era che le guerre con l’obiettivo di mantenere l’equilibrio erano necessarie e da distinguere nettamente a quelle guerre condotte con lo scopo di cambiare la struttura dell’Europa, come quelle condotte ad esempio da Napoleone. 
Un’altra conseguenza era l’esistenza di un punto, nel quale l’ingerenza negli affari di un altro Stato diventava necessaria – e dunque giustificata – per mantenere l’equilibrio esistente del sistema. Tuttavia, sottolinea von Gentz, nel momento in cui viene stabilito un governo regolare all’interno di uno Stato, sia che si fondi sulla giustizia o sulla violenza, che sia moderato o autoritario, distruttivo o benefico, forte o debole – la confederazione internazionale di Stati, in quanto tale, non ha alcun titolo per interferire nelle sue vicende interne. 
Quello che von Gentz sottolinea più volte è che non bisogna commettere l’errore di pensare che “equilibrio di potenza” significhi “uguale distribuzione, dunque uguale potenza, in tutti i vari attori del sistema”. Significa invece che in ogni Stato ordinato, il corpo collettivo di cittadini, e in ogni comunità di Stati, il corpo collettivo di Stati, deve essere uguale nei diritti = i loro diritti devono essere equamente rispettati; ma da questo non deriva che essi abbiano gli stessi diritti, ossia diritti uguali in qualità e valore. 
Ne deriva che la vera equità consiste nel fatto che il più piccolo così come il più grande è garantito nel possesso dei suoi diritti e che il primo non può essere costretto dal secondo. 
Tuttavia, continua von Gentz, come anche la migliore costituzione statuale lascia comunque degli spazi “vuoti”, in cui possono scatenarsi gli istinti naturali umani, come la violenza, l’oppressione, l’ingiustizia, così, allo stesso modo, anche la più perfetta costituzione federale non è sempre in grado di prevenire ogni attacco da parte dello Stato più potente contro lo Stato più debole. 
Il problema principale è, ancora una volta, la mancanza di un potere esecutivo e/o giudiziario sopra-nazionale, in grado di garantire il perfetto funzionamento del sistema. 
A questo punto, von Gentz passa ad elencare i principi dell’equilibrio di potenza/sistema di contrappesi dell’Europa: 
− Nessuno dei suoi membri deve diventare tanto potente da poter contraffare tutti gli altri messi insieme; 
− se si vuole non solo mantenere l’attuale sistema, ma farlo senza mezzi eccessivamente violenti, ciascun membro che viola tale equilibrio deve essere messo in una condizione di limite non solo dalla forza collettiva di tutti gli altri attori, ma dalla maggioranza di essi, se non addirittura da uno solo; 
− il timore di scatenare una sorta di “vendetta collettiva” deve essere in sé sufficiente per stimolare atteggiamenti di moderazione in tutti i membri del sistema; 
− se uno Stato europeo raggiunge in modo illegale un certo grado di potere, tale Stato deve essere trattato come nemico comune. Viceversa, se uno Stato ottiene un certo grado di potere in via del tutto fortuita, non volontaria, bisogna utilizzare tutti i mezzi diplomatici possibili per diminuire tale potere. 

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Lo Stato che non viene bloccato da vincoli esterni dall’opprimere uno Stato più debole, è sempre, per quanto debole in sé possa essere, troppo forte per gli interessi dell’intero sistema; viceversa, lo Stato che è in grado di agire nel rispetto dei diritti del più debole, per quanto forte in sé possa essere, è, per l’intero sistema, non così forte. 
Un sistema così delineato appare molto simile al cosiddetto “equilibrio costituzionale” interno di uno Stato ⇒ come i poteri divisi devono agire insieme per scopi positivi, così, in casi straordinari, essi possono anche combinarsi volontariamente per scopi negativi, cosicché il raggiungimento di tale scopo, impossibile per un singolo potere, diventa possibile dalla loro unione. 
La possibilità di un simile abuso, secondo von Gentz è diventata un’eventualità molto probabile nel contemporaneo sistema europeo e la divisione della Polonia nel 1772 ne è la più evidente dimostrazione ⇒ se la divisione della Polonia fu il primo evento che, con un abuso di forma fece impazzire l’equilibrio politico dell’Europa, essa fu anche uno dei primi eventi che generarono una apatia di spirito, e una stupida insensibilità all’interesse generale. Il silenzio di Francia e Inghilterra, il silenzio di tutta l’Europa, nel momento in cui una misura così importante fu pianificata ed eseguita, è più impressionante dell’evento in sé. 
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È indispensabile, per il futuro, vigilare costantemente contro questo abuso, e di evitarne il ritorno con la vigilanza, l’azione e la saggezza; e nell’esercizio di queste virtù, non dobbiamo solamente ricostruire ciò che è caduto, ma anche assicurarne la durata in futuro. 
Il primo attore che deve preoccuparsi di questo obiettivo riguarda la vera natura dei governi. 
In secondo luogo, ci deve essere la costituzione di uno spirito pubblico, un obbligo comune di tutti; ma anche in questo caso i governi devono guidare la strada. 
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Nel contesto europeo, secondo von Gentz, compito principale dei principi è di mantenere intatto il grado di peso politico, importanza e influenza loro affidati; e non devono tollerare, in nessun caso, l’introduzione di cambiamenti nel sistema generale delle relazioni politiche e distribuzione di potere in Europa. Ma, allo stesso modo, essi sono chiamati e obbligati a controllare, mantenere e difendere, l’indipendenza, la sicurezza e i diritti, dei loro vicini, dei loro alleati e di ogni potere riconosciuto e legalmente costituito; anche quelli dei loro rivali e dei loro nemici occasionali. 
Ciononostante, l’equilibrio di potenza continuò ad essere centrale nella politica inglese, con la differenza che ora non era più un principio morale, ma un sistema elaborato ed organizzato pensato per il mantenimento della sicurezza dell’Europa. 
La definitiva vittoria sulla Francia nel 1815, a cui seguì la nuova mappa dell’Europa stabilita a Vienna, rappresentò in effetti l’ordine delle priorità inglesi. 
⇓ Quali sono i principali frame che verranno ripresi dal realismo contemporaneo? 
− Concezione ciclica della storia, legata, nella maggior parte dei casi, ad una certa concezione della natura umana (Tudicide, Machiavelli, Hobbes); 
− Centralità del concetto di interesse nazionale, con tutti quei problemi di definizione che ne derivano; 
− Distinzione tra etica e politica (Tucidide, Machiavelli, Hobbes nell’ambito della politica internazionale, Federico il Grande, che separa il suo essere uomo dal suo essere principe); 
− Idea di equilibrio (Tucidide e tutta la tradizione europea). 

Tratto da TEORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI di Elisa Bertacin
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