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Come avviene il controllo psicologico dell’azione?

Come avviene il controllo dell’azione? Il problema è quello di articolare i processi discendenti (top down) che dalla struttura cognitiva vanno giù verso l’azione (e che sono abbastanza noti) con i processi ascendenti (bottom up) che dai dati dell’attività vanno su verso i “piani” ed i meccanismi di controllo sia automatici che coscienti. Infatti questi processi ascendenti, che trasmettono l’informazione derivante dai cambiamenti che l’azione ha prodotto nella situazione (o dai non cambiamenti, ovviamente) sono suscettibili di modificare non solo i procedimenti concretamente messi in atto ma anche i piani stessi in cui quei procedimenti sono rappresentati ed, avendo presente quanto già appariva dalle esperienze sul livello di aspirazione, anche ciò che sta a monte dei piani. 
L’azione non è basata soltanto su una conoscenza di tipo dichiarativo (il sapere cosa o il sapere chi) ma anche e soprattutto da una conoscenza di tipo procedurale (il sapere come): la conoscenza dichiarativa (così chiamata perché esprimibile in forma linguistica) è sempre esplicita, consapevole, in qualche modo “dicibile”; la conoscenza procedurale spesso non lo è, spesso non affiora neppure alla coscienza in forma verbalizzabile, spesso funziona in modo automatico. 
Nella pianificazione e poi nel controllo dell’azione, conoscenze dichiarative e conoscenze procedurali si intersecano e si collegano. 
Pianificare “anticipare” (rappresentazioni schematiche e simulate) Gli “esperti” (nel campo particolare in cui l’attività si svolge) sono avvantaggiati in quanto riescono a prospettarsi uno schema d’insieme, mentre i non-esperti, avendo meno schemi specifici a disposizione e minori criteri di valutazione, tendono ad entrare troppo presto nei dettagli. D’altra parte gli esperti possono anche fidarsi troppo delle loro capacità di generalizzazione portando troppo in là la forma semplificata iniziale e quindi non riuscendo più ad allargarla come il problema richiederebbe. In effetti, se un piano è “una rappresentazione schematica e/o gerarchizzata”, esso può correre due rischi: di “guidare” poco l’azione se è troppo globale, e di essere messo costantemente in questione se è troppo dettagliato. Inoltre un piano, pur se risponde a criteri procedurali più che non dichiarativi, non sempre contempla già al momento di inizio tutti i dettagli al livello che l’azione può richiedere esso deve potersi adattare via via all’acquisizione degli eventuali nuovi stati che l’azione produce con il suo sviluppo nell’ambito dei meccanismi di retroazione. In senso ottimale un piano dovrebbe costituire un momento di equilibrio tra i due processi piagetiani di assimilazione e di accomodamento ove soprattutto quest’ultimo diviene cruciale ai fini di permettere al piano la sua flessibilità, senza tuttavia perdere l’intenzione di base. Un piano, infine, può non essere un vero e proprio piano di azione in senso stretto talvolta è quasi solo un’ipotesi di lavoro verso un obiettivo lontano, che è valida solo per un certo periodo e soltanto per avviare una certa attività, ma che necessita poi di specificazioni e di più precisi dettagli procedurali, di riadattamenti, ecc. Questo aspetto è da considerare con attenzione soprattutto per le azioni ed interazioni che si svolgono nel sociale. 
PIANO nella VITA QUOTIDIANA Nel quotidiano l'azione non si presenta come un singolo processo ma come un insieme di azioni promosse da un insieme di scopi che messi insieme contribuiscono a raggiungere lo scopo generale che il soggetto si propone abbiamo così un SISTEMA di SCOPI e SOTTOSCOPI, di AZIONI e SOTTOAZIONI Molti scopi divengono, quindi, soltanto un mezzo per raggiungere scopi più ampi lo scopo più elevato viene definito SOVRASCOPO. 
In realtà, nel concreto della vita di relazione, non solo gli scopi dell’agire sono in genere complessi, ma anche MULTIPLI questo contribuisce a differenziare ulteriormente l’azione quotidiana da quella che si svolge in contesti specialistici e controllati. 
WILENSKY In questo caso la pianificazione dell’azione diviene una METAPIANIFICAZIONE INSIEME COMPLESSO di PROCESSI di RAGIONAMENTO (NON NECESSARIAMENTE COSCIENTE, ANZI, SPESSO AUTOMATIZZATO) TENDENTE A “NON SPRECARE RISORSE”, “A REALIZZARE IL MAGGIOR NUMERO di SCOPI”, “AD EVITARE SCOPI IMPOSSIBILI”. 
KEITH OATLEY (teoria delle emozioni insieme a Johnson-Laird) conduce varie osservazioni interessanti che ben si accompagnano con l’ottica che abbiamo seguito in questo campo ed in genere con la nostra concezione dell’azione. SCARSE RISORSE Nel mondo ordinario molte nostre azioni oscillano “al confine tra il volontario e l’involontario”, sono guidate da motivazioni talvolta differenti, possono “prendere le mosse da un certo piano mentre si vuole raggiungere qualcosa d’altro”. Possono così prodursi CONFLITTI più o meno “ESPLICITI” quando una persona è presa in mezzo alle esigenze di due ruoli e non ha sufficienti risorse per far fronte all’agire richiesto da entrambi (ad es. il lavoro ed il crescere i figli), oppure CONFLITTI IMPLICITI quando una persona si impegna poco nel fare qualcosa, quando, cioè, non collega un “modello di sé” con il piano d’azione. Tali conflitti possono dare origine, come lo stesso Oatley ha dimostrato, ad ANSIE e SINTOMI di DEPRESSIONE. Non solo le risorse possono essere scarse, ma anche le conoscenze necessarie all’azione possono essere (e spesso lo sono) imperfette CONOSCENZE IMPERFETTE La maggior parte delle azioni umane intenzionali si svolge con una conoscenza imperfetta degli effetti precisi che esse avranno il che porta le persone a procedere con una certa FLESSIBILITÀ ed in modo FRAMMENTARIO, considerando in senso più ampio il tipico meccanismo di retroazione dell’azione e talvolta COSTRUENDO PIANI ATTRAVERSO L’AZIONE STESSA. Inoltre, nell’ambito della vita quotidiana, la realizzazione dell’azione può richiedere L’INTERVENTO in COLLABORAZIONE di due o più soggetti che possono predisporre un piano generale dividendo tra loro vari sottoscopi e sottrazioni. Il coordinamento implicato è perciò più complesso, e così pure le operazioni di controllo. 
BRIAN LITTLE ANALISI dei PROGETTI PERSONALI Un modo per affrontare in parte questa materia, in ambiti di ricerca delimitati ma strettamente collegati con la vita pratica e le sue esperienze, può essere trovato nell’analisi dei progetti personali, che, avviata dallo psicologo sociale canadese Brian Little (1983) è stata da noi ripresa in un’ottica più specificamente connessa con l’agire concreto. Dalle prime analisi sembra in effetti emergere che il legame fra il sé e l’impegno nell’azione sia particolarmente visibile in quei progetti che maggiormente richiamano la RESPONSABILITÀ PERSONALE, i VALORI e L’INTERESSE della persona. 

Tratto da LA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ di Ivan Ferrero
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