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Il realismo offensivo di Mearsheimer

Come Labs, anche J. Mearsheimer, un altro esponente del realismo offensivo, afferma che le grandi potenze sono sempre alla ricerca di guadagni in termini di potere, avendo l’egemonia come loro obiettivo ultimo. 
Questa conclusione viene tratta da Mearsheimer a partire da 5 assunti sul sistema internazionale: 
1. il sistema internazionale è anarchico = è composto da Stati indipendenti, ma privo di un’autorità centrale sopra di essi; 
2. le grandi potenze possiedono certe capacità militari offensive che li rende capaci di colpire ed eventualmente distruggere gli altri ⇒ gli Stati sono potenzialmente pericolosi l’uno per l’altro, anche se alcuni possiedono maggiori capacità che li rende particolarmente pericolosi; 
3. gli Stati non possono mai essere certi delle intenzioni degli altri ⇒ l’incertezza circa le intenzioni degli Stati è inevitabile; 
4. la sopravvivenza (= preservare l’integrità territoriale e l’autonomia dell’ordine politico interno) è l’obiettivo primario delle grandi potenze; esse, però, perseguono anche altri obiettivi (prosperità economica, la promozione di una particolare ideologia, l’unificazione nazionale, la difesa dei diritti umani). TUTTAVIA, il raggiungimento di questi obiettivi altri alla sicurezza può avvenire solo qualora non entrino in conflitto con la logica dell’equilibrio di potenza. In realtà, però, la maggior parte delle volte succede il contrario e il raggiungimento di questi obiettivi diventa un complemento alla ricerca della massimizzazione del potere relativo (in particolare, il perseguimento della prosperità economica, cioè ricchezza, e che dunque può avere pesanti implicazioni sul piano militare). 
5. le grandi potenze sono attori razionali = pensano in modo strategico, considerando le preferenze degli altri Stati e come il loro comportamento possa influenzare le strategie di sopravvivenza. Inoltre, gli Stati prestano attenzione alle conseguenze sia di breve che di lungo periodo delle loro azioni. 

Nessuno di questi assunti, da solo, implica che gli Stati agiscano in modo competitivo. Tuttavia, presi insieme, tutti e 5 delineano un mondo in cui gli Stati pensano e a volte agiscono in modo aggressivo, spingendoli alla ricerca di opportunità per aumentare il loro potere relativo. 
In particolare, Mearsheimer delinea 3 comportamenti tipici, strettamente collegati tra loro: 
1. paura: le grandi potenze si temono a vicenda, dal momento che, dalla prospettiva di ciascuno Stato, tutti gli altri sono potenziali nemici. Questo timore sorge sia perché ciascuno ha le capacità e, a volte, le intenzioni, di agire in modo aggressivo, sia perché è presente il cosiddetto “911 problem” (= l’assenza di un’autorità centrale, in grado di punire gli aggressori). 
Questo timore tende ad essere minore in un sistema bipolare; in esso, infatti, esiste un certo equilibrio tra le 2 superpotenze. 
Tra il bipolarismo e il multipolarismo “sbilanciato” (= in cui esiste un potenziale egemone), Mearsheimer inserisce un sistema intermedio, detto multipolarismo bilanciato = un sistema multipolare privo di un potenziale egemone. In esso, il timore è minore rispetto ad un sistema multipolare “sbilanciato”, ma maggiore rispetto ad un sistema bipolare. 
La particolare struttura del sistema è una conseguenza non voluta della competizione tra le grandi potenze. Lo dimostra chiaramente il sistema emerso in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale e durante la Guerra Fredda, non volutamente costituito da USA e Unione Sovietica, ma frutto di un’intensa competizione per la sicurezza tra le 2 superpotenze. 

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2. self-help: gli Stati nel sistema internazionale hanno come obiettivo la sicurezza. MA, dato il diffuso timore e sospetto nei confronti degli altri, nessuno può contare sugli altri per garantire la propria sicurezza ⇒ ciascuno tende a vedersi come solo e vulnerabile e cerca quindi di provvedere alla propria sicurezza. 
L’elemento del self-help, però, non esclude che gli Stati possano formare delle alleanze. Esse, però sono solamente dei temporanei matrimoni di convenienza, dal momento che l’alleato di oggi potrebbe essere il nemico di domani e viceversa. 
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3. massimizzazione del potere: date le 2 precedenti affermazioni, gli Stati imparano presto che il modo migliore per garantire la propria sopravvivenza è di diventare lo Stato più potente del sistema ⇒ gli Stati prestano grande attenzione a come il potere è distribuito tra loro, il che li porta ad avere una visione di gioco a somma zero dei rapporti tra loro. 
La ricerca del potere finisce solo quando viene raggiunto il fine ultimo dell’egemonia ⇒ gli Stati non vogliono mantenere lo status quo finché non possiedono il dominio completo del sistema. Poiché tutti gli Stati perseguono questo obiettivo, essi non solo prestano molta attenzione a tutte le opportunità che si presentano loro, ma anche cercano di evitare che gli altri ne traggano beneficio. 

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Secondo questa logica, il mondo è inesorabilmente caratterizzato da competizione, menzogna, imbrogli e uso della forza; la pace, intesa come stato di tranquillità e mutua concordia, è pressoché impossibile in un mondo simile. 
Il dilemma della sicurezza, dunque, secondo Mearsheimer gioca a favore del realismo offensivo. Purtroppo poco può essere fatto per mitigare tale dilemma, finché il sistema in cui operano gli Stati resta anarchico. 
Ovviamente, non sempre le grandi potenze possono seguire le loro intenzioni aggressive, perché 
− il loro comportamento è influenzato non solo dalla loro volontà, ma anche dalle loro capacità di realizzare i loro desideri; 
− le decisioni vengono prese sulla base di informazioni imperfette, dal momento che, da un lato, i potenziali avversari hanno molti incentivi a mentire sulle loro effettive capacità militari; dall’altro lato, mentono anche sulle loro reali intenzioni, per sviare la strategia degli avversari. 

Mearsheimer continua approfondendo ulteriormente il discorso sull’egemonia. 
Un egemone = uno Stato che è così potente da dominare tutti gli altri Stati nel sistema. In pratica, è l’unica grande potenza nel sistema. 
NB: uno Stato che è sostanzialmente più potente delle altre grandi potenze nel sistema NON è un egemone, perché, per definizione, deve confrontarsi con altre grandi potenze. 
Il concetto di egemonia, per definizione, si riferisce a tutto il sistema, dunque al mondo intero. È tuttavia possibile applicarlo anche a sistemi più circoscritti, regionali. Occorrerà solo distinguere tra: 
− egemone globale = domina tutto il mondo 
− egemoni regionali = dominano distinte aree geografiche. 

Secondo Mearsheimer, però, nella realtà è pressoché impossibile raggiungere l’egemonia globale. L’ostacolo principale, infatti, sarebbe di natura geografica, dal momento che è particolarmente difficile proiettare il proprio potere attraverso gli oceani su tutti i territori del mondo ⇒ l’esito migliore a cui uno Stato possa aspirare è di essere un egemone regionale in grado di controllare un’altra regione confinante. MA, dal momento che ciascun egemone regionale tenterà di controllare e, se possibile, dominare, gli altri egemoni regionali, possiamo concludere che l’esito migliore per una grande potenza sarebbe di essere l’unico egemone regionale al mondo. 
La discussione su come il potere influenzi la paura che gli Stati provano reciprocamente porta ad una ovvia domanda: 
Che cos’è il potere? 
Per rispondere, è necessario distinguere tra: 
− potere potenziale = si basa sulla popolazione e il suo livello di ricchezza all’interno di uno Stato. Questi 2 aspetti sono essenziali, perché costituiscono la base del potere militare dello Stato ⇒ Stati ricchi e con una grande popolazione generalmente costruiscono un formidabile assetto militare; 
− potere reale = si basa principalmente sulle forze armate, aeree e navali di uno Stato. 

Un potenziale egemone non deve necessariamente avere i mezzi per combattere contro tutti i suoi avversari contemporaneamente, ma deve essere in grado di sconfiggerli uno ad uno, e magari più di uno alla volta. Il requisito necessario è però il gap di potere tra il potenziale egemone e il secondo Stato più potente nel sistema: deve essere notevole. 
Dati questi assunti, sarebbe tuttavia errato pensare che il realismo offensivo precluda ogni possibilità di cooperazione tra le grandi potenze. La cooperazione è possibile, ma alcune volte è particolarmente difficile, per via di 
− considerazioni circa i guadagni relativi 
− preoccupazione generata dal cheating problem. 

Però, a parte questi 2 ostacoli, nel mondo realista le grandi potenze cooperano; basti pensare alla logica dell’equilibrio di potenza, che porta gli Stati a formare alleanze e a cooperare contro il nemico comune. 
Valutazione delle 2 varianti 
Paradossalmente, il pensiero di Waltz viene invocato da entrambi gli schieramenti, 
− sia dai difensivi, secondo i quali la consapevolezza che una politica espansionista si infrangerà contro la posizione altrui (Grieco) produrrà una politica moderata; 
− sia dagli offensivi, secondo i quali Waltz sottolinea che è la sicurezza, non la potenza, l’obiettivo idealtipico degli Stati. MA nel suo ragionamento è implicito che per aumentare la sicurezza bisogna massimizzare la potenza. 

Tuttavia, l’opera di entrambe le varianti non sembra particolarmente convincente. 
Perché? 
Il maggiore limite del realismo difensivo è quello di concepire la minaccia fondamentalmente in termini di “aggressione armata” ⇒ i realisti difensivi hanno pienamente ragione nell’affermare che la sicurezza non è un bene così raro, perché, in effetti, le minacce e le aggressioni armate sono più un’eccezione che la regola. 
TUTTAVIA, la minaccia non si limita alla possibilità di un’aggressione armata, ma possiamo affermare che è al mutare dei rapporti di forza in modo svantaggioso che uno Stato viene a trovarsi in una condizione più precaria, è al mutare dei rapporti di interdipendenza che uno Stato si trova in una situazione più delicata e vulnerabile. 
E questo perché la variazione in senso negativo dei rapporti di forza va a limitare l’autonomia, la libertà di movimento degli Stati, anche indipendentemente da un’aggressione armata. 
D’altra parte, anche il realismo offensivo incontra certi limiti. Certamente ha ragione nell’affermare che, accanto ai rischi e alle minacce, ci sono certe opportunità ⇒ in un ambiente anarchico è limitativo concentrarsi esclusivamente sulle costrizioni, perché gli Stati non si limitano a reagire alle minacce, ma reagiscono anche alle opportunità e, appena possono, le sfruttano per aumentare il loro potere. 
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A prima vista, questo completamento appare molto convincente, perché sembra descrivere in modo più completo e dettagliato la realtà. 
MA, sul piano empirico, come si fa a distinguere una minaccia da un’opportunità?
Molto spesso, infatti, questi 2 concetti sul piano reale sono molto legati tra loro: ad esempio, se non si sfrutta una certa opportunità si rischia di trovarsi di fronte ad una minaccia; oppure, reagire ad una minaccia può implicare non solo il beneficio della difesa e della sicurezza, ma anche altri guadagni. Si pensi ad esempio agli Stati Uniti in Iraq: non solo hanno reagito ad una minaccia, ma hanno anche colto l’opportunità di garantirsi il controllo di una zona strategicamente molto importante. 
Una seconda osservazione da fare al realismo difensivo è che esso ha una concezione “conservatrice” del comportamento degli Stati. Questo lo porta a vedere tutti gli Stati come desiderosi di preservare lo status quo. MA, in realtà, non è così, perché sono numerosi i casi di Stati revisionisti. 
Del realismo offensivo si potrebbe criticare invece la sua concezione per cui tutti gli Stati sono revisionisti, visione anche questa alquanto grossolana ed inappropriata, quasi caricaturale del comportamento degli Stati. Inoltre, la sua visione della guerra = il modo migliore per aumentare il potere è un’affermazione che limita altamente l’analisi delle relazioni internazionali. La guerra, infatti, è uno dei mezzi per aumentare il potere, ma non sempre è il migliore. 
Un’ultima osservazione: dire che gli Stati, in base al realismo waltziano, sono dei “posizionalisti” difensivi, non significa automaticamente che essi sono sempre favorevoli al mantenimento dello status quo. Infatti, in generale, essere difensivisti non significa per forza voler mantenere quel dato status quo; un attore che agisce da posizionalista difensivo vuole essenzialmente mantenere la propria posizione rispetto agli altri ⇒ essendo un comportamento in costante paragone con gli altri, se gli altri crescono, anch’io devo crescere per mantenere la mia posizione. 
⇓ Per mantenere la posizione, anche per Waltz talvolta è necessario ricorrere ad atteggiamenti offensivi. 
Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che, se si fosse in grado di definire gli assunti dei realisti difensivi un po’ meglio e di aggiungere delle variabili riguardanti la politica interna, il neorealismo potrebbe diventare anche una teoria di politica estera. 
Waltz su questo punto è però molto critico, dal momento che egli ha più volte ribadito che non si può migliorare una teoria aggiungendo delle variabili; la teoria è un particolare costrutto, con una determinata funzione esplicativa e aggiungendo variabili non si ottiene una teoria più ampia, in grado di risolvere a più domande. 
Una teoria della politica internazionale, per quanto riguarda il comportamento degli Stati, afferma solamente che se gli Stati non si conformano alle pressioni strutturali pagheranno un certo prezzo, ma sono comunque liberi di decidere come agire. 
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In generale, una teoria della politica internazionale spiega i motivi per i quali gli Stati che hanno una posizione sistemica simile (ad esempio le 2 superpotenze nel sistema bipolare) si comportano in modo simile, indipendentemente dalle loro differenze interne. 
Una teoria della politica estera, invece, spiega perché gli stessi Stati, posizionati in modo simile dal punto di vista sistemico, con caratteristiche interne diverse, si comportano in modo diverso. 
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Non c’è una teoria che prevale sull’altra, perché mentre una teoria della politica internazionale spiega una cosa, una teoria della politica estera spiega una cosa diversa. 
Una teoria della politica internazionale diventa rilevante per la politica estera soltanto quando le forze esterne sono predominanti, cosa che però non avviene praticamente mai. 
Possibili alternative 
− Costruire una teoria generale che tenga conto sia del comportamento degli Stati, sia della loro interazione, sia degli esiti di queste interazioni ⇒ una teoria generale, che sia di politica internazionale e di politica estera (ALQUANTO IMPROBABILE). 
− Mantenere la distinzione tra politica internazionale e politica estera, ognuna delle quali richiede certi strumenti per essere adeguatamente studiata. 

− Un modo abbastanza convincente di andare oltre la teoria neorealista, pur partendo da considerazioni strutturali, è l’analisi di G. Snyder in Alliance Politics. Il sistema è formato da STRUTTURA e UNITÀ INTERAGENTI: Waltz si occupa solo della struttura, arrivando a spiegare gli esiti, ma dice ben poco dei comportamenti. 
Secondo Snyder, però, se introduciamo una nuova categoria concettuale sistemica oltre alla struttura, siamo in grado di gettare luce su alcuni comportamenti. Questa nuova categoria è formata da quelle che Snyder chiama relationships = il contesto situazionale in cui si trovano gli Stati; questa categoria rimanda al modo in cui gli Stati interagiscono ⇒ è un concetto relazionale. 
[NB: la struttura è il contesto generale] 
Le relationships sono date dalle seguenti variabili sistemiche, ma non strutturali: 
− interessi, in conflitto o in comune 
− allineamenti = le aspettative che uno Stato ha sull’essere appoggiato, ostacolato oppure ignorato se prende certe iniziative 
− capacità = i mezzi e le risorse del potere (relativo) 
− dipendenza = risorsa di potere (⇒ simile alle capacità), di solito riferita ai rapporti interalleati. 
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Dati gli Stati, ci sono degli esiti (balancing) e dei comportamenti (balancing behaviour), l’introduzione di questa nuova categoria ci permette di capire perché in certi casi la formazione dell’equilibrio è rapida e semplice, mentre in altri casi è più difficile e occorre più tempo perché si realizzi. 
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Partendo da queste relationships, Snyder afferma che l’equilibrio si forma in tempi rapidi quando 
− gli interessi coincidono 
− le aspettative sono simili ⇒ facilitano la collaborazione 
− ci sono mezzi, capacità tali da permettere agli Stati di opporsi in modo efficace al potenziale egemone. 

Quando anche solo una di queste condizioni non è presente ⇒ malgrado l’equilibrio sia strutturalmente indotto, esso impiegherà molto più tempo per formarsi. 

Tratto da TEORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI di Elisa Bertacin
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