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Le cellule staminali embrionali

Le cellule staminali embrionali sono presenti nella massa cellulare interna (o embrioblasto) della blastocisti, poco prima dell’impianto nella mucosa uterina. Queste cellule possono essere coltivate in opportune condizioni per lunghi periodi e sono quindi in grado di generare un numero elevatissimo di cellule figlie le quali mantengono la capacità di differenziare in tutti i tessuti dell’organismo e per tale motivo sono definite “totipotenti”. Le cellule staminali embrionali o ES (dall’inglese: “embryonic stem” cells) possono essere geneticamente modificate in vitro mediante sostituzione di un gene sano con uno mutato o viceversa (ricombinazione omologa). Quando iniettate nella cavità (blastocele) di una blastocisti ospite, le ES colonizzano tutti i tessuti dell’embrione chimerico (così definito perché composto dalla mescolanza di due genotipi diversi) compresa la linea germinale. Possono pertanto trasmettere un gene d’interesse alla progenie della chimera permettendo così di creare modelli di malattie umane o di terapie in utero. Nel 1998 è stato possibile per la prima volta isolare e coltivare cellule staminali embrionali umane, il che ha aperto nuove prospettive terapeutiche e altresì generato una serie di roventi polemiche, soprattutto nei paesi cattolici. Cellule staminali embrionali umane possono dare origine a tutti i tessuti differenziati del nostro corpo e quindi generare nuovi neuroni o cardiomiociti o epatociti per riparare tessuti vitali danneggiati da malattie degenerative. Tuttavia le cellule staminali ottenute da embrioni non impiantati, quali quelli ottenuti in eccesso durante procedure di fecondazione in vitro, sono immunologicamente diverse dal paziente in cui sarebbero trapiantate e ciò richiederebbe procedure di immunosoppressione simili a quelle utilizzate per i trapianti di organo. Esiste tuttavia una strategia alternativa. In linea di principio è possibile isolare cellule staminali embrionali autologhe (cioè derivate dallo stesso paziente e quindi immunologicamente identiche). A tal fine occorre attuare un complesso procedimento che ha funzionato in numerosi mammiferi ma finora non nei primati. Cellule uovo mature ma non fecondate (ottenibili quindi da donatrici) sono soggette a trasferimento nucleare. Con un sottilissimo capillare si deposita nel citoplasma dell’uovo il nucleo, in precedenza isolato da cellule somatiche del paziente, e si rimuove il pronucleo femminile. L’uovo inizierà, in una certa percentuale di casi, un processo di segmentazione che arriverà allo stadio di blastocisti. A questo punto le cellule della massa cellulare interna saranno isolate e coltivate per ottenere il tipo cellulare necessario per ricostituire il tessuto danneggiato del paziente. Queste cellule avranno lo stesso genoma del paziente (con l’eccezione dei geni mitocondriali che invece derivano dalla cellula uovo) e quindi sarebbero immunologicamente riconosciute come “self”. Rimangono da risolvere, a parte i problemi etici, numerosi problemi tecnici, che valgono anche per le cellule staminali adulte e saranno quindi discussi alla fine di questo paragrafo. Per completezza di informazione viene brevemente descritta di seguito la “clonazione riproduttiva” che si ottiene quando invece l’embrione prodotto per trasferimento nucleare viene lasciato sviluppare fino a generare un nuovo individuo. Questo processo, descritto oltre quaranta anni fa da John Gurdon per gli anfibi non si riteneva possibile per i mammiferi. Tuttavia, nel 1997 Ian Wilmut riportò la nascita della famosa pecora “Dolly” ottenuta per trasferimento nucleare e successivo impianto nell’utero di una madre ospite. Finora sono stati clonati vari mammiferi (roditori, ovini, bovini) ma non primati. Tutti gli animali clonati presentano difetti più o meno gravi a carico di molti organi che di solito li portano a morte prematura.

Tratto da BIOTECNOLOGIE CELLULARI di Domenico Azarnia Tehran
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