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Politiche per la famiglia: un excursus


La famiglia è una realtà complessa e multiforme. In Italia manca una specifica politica per la famiglia e i provvedimenti che la riguardano devono essere rintracciati tra le pieghe della legislazione sociale e fiscale. L’assenza di interventi organici e mirati contribuisce a perpetuare un modello tradizionale di famiglia basato sul maschio che produce reddito, la donna che si occupa del lavoro domestico, i figli che dipendono fino all’età adulta dai genitori, sulla cura fornita da parte esclusivamente femminile a parenti non autosufficienti, siano essi minori o anziani.
Dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, in materia di politica sociale, notiamo uno spostamento verso una visione di famiglia nella sua normalità e, correlato a questa, il tentativo di affermazione di una logica preventiva e di sostegno, che va faticosamente a sostituirsi alla dimensione assistenziale e riparativa. Sul versante delle esperienze, è presente una maggiore attenzione alla valorizzazione delle risorse, alla pluralità di soggetti pubblici e privati, alla molteplicità e diversificazione dei servizi. Si tratta di interventi voluti e sostenuti da provvedimenti legislativi, quali la legge 285/1997 — “Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”. La legge non è specificatamente rivolta alla famiglia, la coinvolge in modo indiretto occupandosi di infanzia e adolescenza, ma l’ente pubblico qui si impegna nella promozione di opportunità, e non più solo nella riparazione di disfunzionalità.
Con la legge 285 sono state avviate e finanziate molteplici sperimentazioni che hanno coinvolto una pluralità di attori nella gestione dei servizi, favorendo un rinnovamento e un ampliamento dei progetti e delle esperienze, incentivando la collaborazione tra diversi soggetti pubblici e privati. Una mancanza della legge risiede nell’aver favorito lo sviluppo ditali progettualità innovative esclusivamente nelle aree territoriali che già potevano contare su un retroterra culturale, una sensibilità dell’ente pubblico e la presenza consolidata di servizi socio-educativi.
Un secondo limite è riscontrabile nell’assenza della definizione di elementi regolativi del sistema di opportunità che la legge intende avviare. Manca infatti nell’impianto della legge l’indicazione di standard, requisiti minimi, criteri e parametri a cui attenersi. Tutto ciò se da una parte allontana il pericolo di omologazione e favorisce la pluralità delle offerte, dall’altra vanifica la possibilità per l’ente pubblico di esercitare quella funzione di regolazione, di mediazione e controllo che gli appartiene, con il rischio che il pluralismo diventi degenerativo, a discapito, oltre che della qualità, dell’identità stessa del sistema.
Più recente è la legge 328/2000 — “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” — il cui oggetto è il riordino (legge quadro) dell’intero sistema di servizi sociali.
Compare il termine famiglia, ma la maggior parte delle risorse a livello nazionale resta destinata alle disfunzionalità, emergenze o carenze degli individui, siano esse costituite dal fattore handicap, povertà, dipendenze, malattia. In Italia solo il 3,8% della spesa sociale è destinato alla famiglia. Per quanto riguarda la possibilità di creazione di un sistema che integri pubblico e privato sociale in un’ottica territoriale, esso prevede un modello che ancora non sembra esprimersi in concreti interventi. A rendere più complessa la possibilità di riordino del servizio sociale nazionale, ad un anno dalla legge 328, è intervenuta la riforma del Titolo V° della Costituzione che ha trasferito in via esclusiva alle Regioni l’autorità legislativa in materia di servizi sociali.
La politica sociale italiana ha sempre ritenuto prioritario far fronte alle esigenze di riparazione, alla cura del malessere dei singoli individui, rispetto al prendersi cura del benessere della famiglia e della collettività.
Nel nostro paese — a differenza della Francia e del Nord Europa — solo recentemente si inizia a parlare della necessità di una politica familiare non più riconducibile all’assistenza sociale. Il sistema assistenziale non è preventivo né educativo, ma è per sua natura riparativo.
Dove la famiglia non funziona e presenta una carenza, il sistema assistenziale pubblico interviene. Il sistema del servizio sociale fa riferimento ad un paradigma causale e lineare, basato sul modello domanda/risposta e bisogno/servizio; la legge 328, se applicata in modo parziale e settoriale rischia di rafforzare tale modello.
La legge introduce il principio del voucher sociale per l’utente: una sorta di “buono acquisto” per l’accesso ai diversi servizi sociali. Il principio del voucher dovrebbe comportare semplicemente una diversa modalità di erogazione delle risorse; non più dall’Ente (Stato, Regioni, Comuni) ai diversi servizi socio-sanitari-assistenziali-educativi, ma dal Pubblico al cittadino e da questo ai servizi. Tale principio però, se isolato dagli altri aspetti previsti dalla legge e oggi non ancora attivati rischia di alimentare un meccanismo di mercificazione completamente estraneo alla logica del servizio sociale e della legge stessa. I servizi sono incentivati ad investire non in qualità, ma per avere maggiore visibilità sul mercato. L’utente — il cliente che paga — malato, dipendente, maltrattato, solo, povero, diventa un consumatore di servizi sociali. Di contro i servizi e le istituzioni proseguono nell’adottare una logica di settore e concorrenziale, ciascuno con propri codici comunicativi, schemi di riferimento, modalità di funzionamento, che si mantengono inalterati nel tempo, refrattari al cambiamento.

Tratto da BRICOLAGE EDUCATIVI di Anna Bosetti
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