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L'influenza del teatro nei personaggi di M. Butterfly

L'influenza del teatro nei personaggi di M. Butterfly



È evidente che al centro della fantasia erotica di Gallimard non c'è Song ma il suo fantasma scenico, il riverbero dell'icona della Butterfly. Gallimard si innamora di un palcoscenico, percorso da occhi estatici; di una primadonna che ne occupa il centro; e soprattutto di uno sguardo (il proprio, quello della platea) che di questa immagine garantisce il senso. Il film assume allora la forma di un memorabile indugio sullo statuto di verità della visione, di ogni visione. Fin dai titoli di testa, animati da schermi di carta, arabeschi orientali e paraventi mobili, Cronenberg ci immette in un contesto percettivo instabile: l'orizzonte teatrale della dissimulazione è in atto ancor prima che la narrazione abbia inizio.  Tutto il film è segnato dalla presenza di maschere e specchi, di scene e inganni: basti pensare al peso che assumono le sequenze ambientate all'Opera di Pechino, dove Gallimard si reca per favorire la sua cultura. La ritualità dello spettacolo cinese, attraverso la messa in scena di costumi scintillanti, di trucchi pesanti, di movimenti gestuali geometrici e perturbanti, esalta la dimensione estatica della contemplazione del diplomatico. Alla coreografia del palco si aggiunge anche il fascino indiscreto dei camerini, dove Gallimard pedina la sua attrice, sperando forse di smascherare il segreto della sua bellezza. Il viaggio sentimentale dentro l'universo dell'Opera di Pechino è insieme un omaggio alla cultura cinese, intimamente spettacolare, e l'occasione per sublimare la visione che il protagonista ha dell'Oriente e del suo desiderio.
La forza del teatro.
È il mondo del teatro, dunque, a segnare simbolicamente il percorso della soggettività di Gallimard, fino all'ultima interpretazione, la migliore della 'sua' carriera. Trasformando con grande intelligenza registica il finale del dramma di Hwang, Cronenberg fa sì che il gesto estremo di darsi la morte venga inscenato da Gallimard sotto gli occhi dei carcerati, spettatori in delirio di un devastante atto unico. La macchina da presa misura e ritaglia lo spazio della platea (le gradinate del carcere) e quello del palco (una piccola pedana in cui siede Gallimard), si muove con partecipazione dall'alto in basso, alternando concitati primi piani di René e in campo lungo degli astanti. La prigione diviene allora l'anfiteatro in cui si compie la performance sacrificale del protagonista, scandita da gesti misurati, quasi ascetici, di immobile e trascinante bellezza. La compostezza del suo corpo mima il rigore degli attori orientali mentre il suo volto, piano piano reso irriconoscibile, accoglie il mistero di una nuova identità. Gallimard giunge finalmente ad abitare il fantasma dell'amata Butterfly, a ricrearne il destino, separandosi dal mondo per accedere alle vette assolute del desiderio e dell'arte. Per farlo, una parrucca, un kimono e uno specchio col quale si taglia la gola fra gli applausi infervorati del pubblico. Il rosso della maschera si è sciolto in sangue: svanita è l'immagine / qual foglia in chiuse pagine.


Tratto da CINEMA E TEATRO TRA REALTÀ E FINZIONE di Gherardo Fabretti
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