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La soggettività del linguaggio dello spettatore


Il medesimo tragitto vale anche per lo spettatore, bisogna solo invertire il senso di marcia: ad esempio quando
- connette degli indizi sparsi per ricomporre un carattere o per ricostruire un luogo (progressione con cui si vede prender quota un personaggio, o al cumulo di dettagli a partire dai quali si completa uno spazio),
- fornisce una cornice ai dati per mettere in chiaro il loro vero valore (la capacità di un’etichetta di genere – o istituzione cinematografica – di suggerire come van capite le cose),
- ripercorre le linee del quadro per cogliervi l’essenziale e scartare l’accessorio (la flessibilità dell’attenzione nel soffermarsi su alcune figure e nello scivolar via da altre – fenomeni di focalizzazione in particolare),
- riempie i buchi del racconto per restituire alla vicenda tutta la sua complessità (la frequenza con cui il non visto viene chiamato a spiegare quel che è apparentemente palese – come nel fuori campo o nelle ellissi temporali).
Lo spettatore insomma si impegna a guardare: alla disponibilità del mondo sullo schermo risponde con la propria vocazione, alla proposta di una destinazione risponde con le proprie responsabilità; ne deriva un’indicazione essenziale: parlare di interlocutore e di testo non è rischiare il paradosso, ma è inseguire per davvero i fatti, e non è nemmeno optare per un indirizzo di studi dall’incerta applicazione, ma è scegliere l’approccio più adeguato.
Prendendo le nozioni di testo e di interlocutore nella loro valenza più ampia, prescindendo cioè dal loro uso nel campo del cinema, la loro introduzione mette sul tappeto almeno due importanti questioni: la soggettività del linguaggio e il metodo d’indagine da adottare.

Tratto da CINEMA di Nicola Giuseppe Scelsi
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