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Le oggettive irreali di Via col vento

Le oggettive irreali di Via col vento


Il secondo esempio, Via col vento, coinvolge delle marche produttive anziché delle marche stilistiche, e riguarda delle oggettive irreali anziché delle semplici oggettive; tuttavia i problemi sul tappeto sono gli stessi che nel caso precedente. I momenti cui pensiamo ruotano tutti attorno ad un allargamento imprevedibile e imprevisto nel campo visivo: si tratta in particolare dei carrelli all’indietro che isolano Scarlet O’Hara in mezzo alle sue terre, proiettandola contro l’orizzonte, e della gru che nello stesso film perde letteralmente la protagonista nella piazza di Atlanta ingombra di feriti e di morti.
Questi passaggi vengono caratterizzati dal movimento di macchina che, con il suo ridisegnare il quadro non per meglio descrivere quanto esso contiene ma per immettervi del patetismo e dell’enfasi, arriva a ben evidenziare la presenza di un punto di vista da cui sono state colte e da cui si fanno cogliere le cose.
Dunque, l’enunciatore e l’enunciatario trovano una loro figurativizzazione rispettivamente nella maniere, esplicita, in cui viene trattato l’enunciato e nella forma, sfacciata, con cui esso chiede d’esser decifrato; il farsi e il darsi del film diventano allora principi dichiarati, grazie ad una scrittura che nel ripiegare su se stessa si accende e si ispessisce. Il nostro quadrato si completa anche nei suoi due vertici inferiori – come del resto capita a tutte le oggettive irreali – attraverso la promozione di certi aspetti della ripresa, quali la scelta dell’inquadratura o i mezzi impiegati per realizzarla, a segni avvertibili ed esaurienti della logica che si trova a muovere il gioco.
La spettacolarità qui nasce, più che da un accumulo di meraviglie, dalla valorizzazione cui va incontro la macchina cinematografica, garante diretto dei modi in cui si costruisce e si consegna l’universo sullo schermo; l’iperrealismo si fonda, più che sull’accuratezza un po’ astratta della scenografia, sulla disponibilità del set a trovare in se stesso gli elementi che orientano il discorso audiovisivo; il senso di lusso e di spreco si impone, più per l’abbondanza dei materiali messi in vista, per l’incarico che viene assegnato all’apparato tecnico di prestarsi, al pari della macchina celibe, da fonte e insieme da terminale del propri funzionamento. Ma è soprattutto il mantenimento di questa struttura di base che fa di tali caratteristiche degli snodi fissi: la ratifica avviene da un lato grazie alla collocazione privilegiata delle inquadrature da cui siamo partiti, dall’atro lato grazie alle tentazioni che attraversano molte inquadrature.
Tra le conseguenze più rilevanti c’è l’assegnazione di un posto stabile a colui al quale il film idealmente si rivolge. Il destinatario inscritto nelle immagini e nei suoni era già stato messo sull’avviso: chiamato a misurarsi con uno spazio percorribile e trasformabile, era già stato invitato a usare i piedi anziché il semplice sguardo come di fronte alle presenze messe in linea tra loro ne I migliori anni della nostra vita; costretto a inseguire delle angolazioni ardite, era già stato posto nelle condizioni di identificarsi con un macchina d’azione, invece che con un occhio distaccato ed esterno.
Adesso che un tale suggerimento acquista un eco sicura, lo spettatore voluto e delineato del film può fare del proprio ruolo una certezza: egli ormai s’aspetterà stabilmente di trovare dei riscontri nella performance tecnica, di atteggiarsi a soggetto pratico, di essere portato a seguire le mosse della cinepresa, sapendo che quella è la sua posizione e che la potrà ben mantenere.

Tratto da CINEMA di Nicola Giuseppe Scelsi
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