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Educare all’ulteriorità: il Mathnawi di Rumi


La poesia come educazione all’ulteriorità trova nel poema di Rumi una delle sue più profonde esemplificazioni: la pedagogia mistica del poeta è un continuo tirocinio che conduce il soggetto ad assaporare un annientamento in Dio.
Una delle esperienze che possono portare al divino partendo dalla materialità del mondo presente è l’ebbrezza. L’ebbrezza del vino, che è anche ebbrezza del proibito, non è nulla a confronto della vera ebbrezza che il contatto con Dio permette.
Una anticipazione dell’esperienza mistica utile per la pedagogia dell’innamorato di Dio è data dall’amore carnale e fisico tra gli innamorati.
L’amore ama se stesso attraverso gli amanti; Dio vive nell’amore che fa sciogliere l’amante nel grembo dell’amata. In questo senso l’amore è perdita di sè, una esperienza che ritroviamo in altre situazioni limite poste da Rumi come cardini per la sua pedagogia mistica:
la malattia che porta l’io consueto e quotidiano all’addormentamento
la morte che è il fine del mistico; per questo motivo potremmo definire quella di Rumi una autentica pedagogia della morte; una morte che non deve essere temuta perché costituisce un positivo cambiamento di livello, un innalzamento.
La morte dunque non è tenebra ma luce, anticipata nel mondo quaggiù dall’esperienza quotidiana del sonno al quale ci si abbandona con desiderio, passività e fiducia. Essere passivi, occupare una posizione poco onorevole è il vero segreto dell’avvicinamento a Dio, abbandonarsi, distrarsi dalle cose materiali. La perdita di sé in Dio consiste nella rinuncia alle caratteristiche secondarie (colore, odore, sapore) che costituiscono la prigione dei sensi.

Tratto da EDUCAZIONE E POESIA di Anna Bosetti
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