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Tecnica ELISA in diagnostica virologica

Altri saggi molto importanti per la diagnostica in virologia sono i saggi immunoenzimatici (Enzyme-Linked Immunosorbent Assay, ELISA). La tecnica chiamata ELISA fa uso di anticorpi nei quali gli enzimi sono legati in modo da non modificare né le proprietà catalitiche dell'enzima né la specificità anticorpale. Gli enzimi più comunemente impiegati sono la perossidasi, la fosfatasi alcalina e la β-galattosidasi, i quali catalizzano reazioni i cui prodotti sono colorati  e possono essere perciò rilevati anche in quantità molto basse mediante lettura colorimetrica allo spettrofotometro. Sono stati sviluppati essenzialmente due diversi tipi di ELISA, uno per rilevare antigeni (ELISA diretto) e l'altro per rilevare anticorpi (ELISA indiretto). Per la rivelazione di antigeni, quali virus nel sangue o in campioni di feci, si impiega il test ELISA diretto. Secondo tale procedura, l'antigene è intrappolato tra due strati di anticorpi e, per questo motivo, tale metodo è anche noto come ELISA sandwich. Il campione è aggiunto ai pozzetti di una piastra per microtitolazione precedentemente rivestita con anticorpi specifici per l'antigene che si ricerca. Se l'antigene (virus) è presente nel campione, esso verrà catturato dal sito legante esposto dagli anticorpi immobilizzati nella piastra. Dopo aver allontanato il materiale non legante mediante una serie di lavaggi, si aggiunge un secondo anticorpo coniugato all'enzima. Anche il secondo anticorpo è specifico per l'antigene e si va a legare a uno degli altri determinati antigenici esposti. In seguito ad un ulteriore lavaggio, la quantità di antigene originariamente sequestrato nella reazione viene determinata aggiungendo il substrato dell'enzima. La quantità del prodotto enzimatico, resa evidente dalla produzione di un colore, è proporzionale a quella dell'antigene. Per rilevare, invece, anticorpi nel siero umano, si impiega il testi di ELISA indiretto. Un tipico ELISA indiretto viene impiegato per rilevare gli anticorpi contro il virus dell'immunodeficienza umana (HIV). Per eseguire un test HIV-ELISA, piastre per microtitolazioni vengono rivestite di una preparazione di antigeni HIV (sono necessari circa 200 ng di proteine virali in ogni pozzetto). Viene quindi aggiunto il siero del paziente diluito e la miscela viene incubata per consentire agli anticorpi specifici di legare gli antigeni dell'HIV. Per rilevare la presenza dei complessi antigene-anticorpo, e poi aggiunto un secondo anticorpo. Questo secondo anticorpo è costituito da una preparazione di IgG anti-anticorpo umani, coniugati con l'enzima. In seguito all'aggiunta di un substrato specifico, può essere rilevata l'attività enzimatica attraverso la formazione di una colorazione. Il colore ottenuto è proporzionale alla quantità del secondo anticorpo legato. Il legame del secondo anticorpo è l'indicazione che gli anticorpi presenti nel siero del paziente hanno riconosciuto, e quindi legato, gli antigeni dell'HIV. Ciò indica che il paziente possiede anticorpi contro l'HIV e che, pertanto, è stato infettato dal virus.
Gli anticorpi possono essere anche usati in immunoblot per identificare proteine specifiche associate a particolari patogeni anche in miscele complesse quali lisati di cellulari o sangue. Il metodo dell'immunoblot si basa sull'impiego di tre diverse procedure: 1) separazione di proteine su gel di poliacrilamide, 2) trasferimento (blotting) delle proteine dal gel a una membrana di nylon o nitrocellulosa e 3) identificazione delle proteine mediante anticorpi specifici. Il trasferimento delle proteine e la loro successiva identificazione mediante l'uso di anticorpi è anche nota come tecnica dello Western blot per distinguerla da quella relativa al DNA chiamata Southern blot. Nella prima fase di un immunoblot, la miscela di proteine è sottoposta a elettroforesi su un gel di poliacrilamide. Le proteine presenti si separano formando numerose bande distinte, ognuna delle quali rappresenta una singola proteina con un determinato peso molecolare. Le proteine vengono quindi trasferite alla membrana di nylon mediante un processo di trasferimento elettroforetico. A questo punto, gli anticorpi ottenuti contro specifici componenti di un patogeno, sono aggiunti al blot (membrana su cui sono state trasferite le bande proteiche). Dopo una breve incubazione per consentire agli anticorpi di legarsi, si aggiunge un marcatore reattivo che lega i complessi antigene-anticorpo. Una volta che questo marcatore si è legato, la sua posizione può essere rilevata esponendo la membrana del blot ad una lastra fotografica ai raggi X; i raggi gamma emessi impressionano la lastra solo in corrispondenza delle regioni (bande) nelle quali l'antigene si è legato e nelle quali si è pertanto potuto fissare il marcatore radioattivo. La procedura di immunoblot può venire impiegata per rilevare l'antigene (evidenza diretta: presenza del patogeno) o l'anticorpo (evidenza indiretta: esposizione al patogeno).
Le ultime tecniche che prendiamo in considerazione sono le analisi genetiche dei virus. Come sappiamo l'interazione genetica tra i virus si osserva spesso in natura, poiché un ospite può essere frequentemente infettato da più di un virus e, per questo, l'esame di varianti virali o di mutanti spontanei che compaiono in natura è un metodo usato da molto tempo per determinare la funzione dei geni virali. Dal punto di vista sperimentale, saggi di complementazione mediante superinfezione di colture cellulare, sono estremamente utili per l'assegnazione di mutanti a gruppi funzionali noti come gruppi di complementazione. La complementazione è un interazione non genetica tra virus ed è un evento che può avvenire anche in vivo. In questo contesto, ognuno dei due virus fornisce un prodotto genico funzionale all'altro virus difettivo per quella data funzione. Se entrambi i mutanti sono difettivi per la stessa funzione, non si ha miglioramento delle capacità replicative e significa che i due mutanti appartengono allo stesso gruppo di complementazione. L'importanza di questo saggio risiede nel permettere l'analisi di mutazioni sconosciute. Esistono due possibili categorie di complementazione:
1.la complementazione allelica (intragenica), quando mutanti diversi sono caratterizzati da difetti complementanti nella stessa proteina (es. in domini funzionali differenti) o in subunità diverse di una proteina multimerica (sebbene questo sia raro);
2.la complementazione non allelica (intergenica), che è la più comune e si ha nel caso di mutanti con difetti in geni differenti;
La complementazione, inoltre, può essere asimmetrica, cioè soltanto uno dei virus (mutanti) parientali replicherà. Un caso di complementazione che si osserva in natura è quello in cui un virus selvaggio replicazione-competente fornisce le funzioni necessarie per la moltiplicazione di un mutante replicazione-difettivo. In questi casi il virus selvaggio viene definito “virus helper”. Un classico esempio è dato dai retrovirus trasformanti contenenti oncogeni, generalmente difettivi per la replicazione.

Tratto da ELEMENTI DI VIROLOGIA MOLECOLARE di Domenico Azarnia Tehran
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