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I rapporti tra istanze e racconto /storia al cinema




Possono distinguersi in tre tipi:
a) L’ordine: comprende le differenze tra lo sviluppo del racconto e quello della storia; accade infatti di frequente che l’ordine di presentazione degli eventi all’interno del racconto non sia, per ragioni di enigmaticità, di suspense o di interesse drammatico, quello in cui si ritiene che essi si svolgano. Anticipazioni(flash-forward), che implicano una logica di implicazione, e richiami(flash-back) possono essere, all’interno del tempo diegetico e del tempo filmico, di grande ampiezza o di ampiezza minima quando si tratta, per esempio, di un accavallamento della colonna audio di un piano sul seguente o sul piano precedente.
b) La durata: concerne i rapporti tra la supposta durata dell’azione diegetica e quella del momento del racconto che ad essa è dedicato; il racconto è generalmente più corto della storia, ma può capitare che certe parti del racconto durino più a lungo delle parti della storia che riportano.
c) Il modo: è relativo al punto di vista che guida la relazione degli eventi, che regola la quantità delle informazioni data sulla storia del racconto. Si considererà qui soltanto il fenomeno della focalizzazione; bisogna distinguere comunque tra quella su un personaggio, che è estremamente frequente: l’eroe è colui che la macchina da presa isola e segue e quella tramite un personaggio, ugualmente frequente e si manifesta sotto forma di soggettiva.
Ci si limiterà a notare che l’organizzazione narrativa del cinema classico porta spesso a fenomeni di diegetizzazione di elementi che non appartengono in realtà alla narrazione; questi fenomeni sono l’effetto di un funzionamento generale dell’istituzione cinematografica che cerca di cancellare nello spettacolo filmico le tracce del proprio lavoro, persino della propria esistenza.
Il fatto che la finzione cinematografica si offra alla comprensione senza riferimento alla propria enunciazione non è privo di somiglianza con quanto notava Benvéniste a proposito degli enunciati linguistici, proponendo di distinguere in essi tra storia e discorso: il discorso è un racconto che non può essere compreso se non in funzione della propria situazione di enunciazione, di cui conserva un certo numero di segni(pronomi io-tu che rimandano agli interlocutori, verbi al presente, al futuro, ecc), mente la storia è un racconto senza segni di enunciazione, senza riferimento alla situazione nella quale è prodotto(pronome egli, verbi al passato remoto, ecc.). Il film di finzione classico è un discorso, poiché esso è il prodotto di un’istanza narrativa, che si traveste da storia, poiché esso fa come se quest’istanza non esistesse; è per questo travestimento che è stato possibile spiegare la famosa regola che prescrive all’attore di non guardare in macchina. Nel presentarsi come una storia (nel senso inteso da Benvéniste, e non da Genette, secondo cui designa il contenuto di un enunciato), il film di finzione trae alcuni vantaggi: presentandoci una storia che si racconta da sola acquista il valore essenziale di essere come la realtà; essa infatti non sembra altro che essere la compilazione di un sorgere di eventi che non sarebbe guidato da nessuno. Ma questa storia che nessuno racconta è una storia che nessuno garantisce e che si gioca senza rete, essa è infatti colta sempre tra il tutto e il niente: essa rischia ad ogni istante di cambiare direzione, di sparire nell’insignificanza; è dunque certo che il cinema narrativo tragga una buona parte del fascino che esercita dalla facoltà che ha di travestire il proprio discorso da storia. Il piacere tratto dal film di finzione ha dunque a che vedere con un misto di storia e di discorso, in cui lo spettatore ingenuo e l’esperto trovano in pari tempo, mediante una separazione mantenuta, di che soddisfarsi.

Tratto da ESTETICA DEL FILM di Nicola Giuseppe Scelsi
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