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I media e la guerra nel Balcani

Una delle forme di propaganda all’odio etnico più efficaci è quella realizzata in Rwanda prima del genocidio: a parte il BBC World Service, il paese è quasi completamente isolato dai media internazionali ⇒ in assenza di fonti alternative, l’influenza della radio si rivela straordinariamente efficace. La propaganda nel paese segue il solito copione: il popolo hutu viene vittimizzato dall’oppressione secolare dei tutsi e viene sottolineata la minaccia di un ritorno ad un regime di stampo feudale. 
Il territorio dell’ex-Yugoslavia è il teatro, durante gli anni ’90, di 2 sanguinosi conflitti in cui i media giocano un ruolo importante: 
1 1. la guerra in Bosnia-Erzegovina rappresenta la prima guerra umanitaria e uno dei pochi casi in cui si può parlare di un autentico CNN effect. Fin dall’inizio, i media dedicano ampio spazio alla guerra, abbracciando la percezione diffusa negli ambienti politici che si tratti di uno scontro etnico tra nazionalismi di tipo tradizionale. 
Per i giornalisti raccogliere le informazioni non è un’impresa facile: hanno accesso limitato sia alle zone di guerra sia ai luoghi dei massacri, e la velocizzazione dei cicli-notizia accorcia sensibilmente il tempo a disposizione per l’invio di pezzi ⇒ di frequente, le notizie non vengono verificate, preferendo affidarsi troppo spesso a dicerie e a testimonianze isolate, sempre alla ricerca del sensazionalismo. È questo tipo di copertura mediatica ad attivare per la prima volta un CNN effect, spingendo la comunità internazionale, e in particolare gli USA, ad impegnarsi in un intervento bellico a scopo umanitario ⇒ la guerra in Bosnia-Erzegovina mette in luce l’influenza che lo spettacolo del dolore può esercitare sul campo politico, quando quest’ultimo è indeciso sul da farsi. In un primo tempo, infatti, Usa ed Europa sono restii ad intervenire in un conflitto percepito come etnico, mentre la presenza delle truppe ONU mostra in modo sempre più imbarazzante i suoi limiti, così come lo sforzo umanitario per portare aiuti alla popolazione. 
Le svolte più rilevanti sono dovute a 2 eventi in cui l’influenza dei media appare determinante: 
0 − la caduta dell’area di sicurezza creata dalle truppe ONU intorno alla città di Srebrenica nel luglio 1995: i media raccontano l’avvenimento come un disastro, focalizzandosi sulla questione dei profughi e sottolineando il fallimento della politica di attesa dell’Europa e degli USA 
1 − l’ennesimo bombardamento di un mercato a Sarajevo con colpi di mortaio il 5 febbraio 1994, la cui responsabilità è peraltro ancora da chiarire: è una tragedia che gode di una grande risonanza mediatica, dovuta anche all’abbondante disponibilità di immagini che illustrano l’orrore provocato dalle esplosioni. 
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Alla fine dell’agosto del 1995 comincia la campagna di bombardamenti da parte della NATO e gli sforzi diplomatici per mettere fine al conflitto si fanno più intensi. 
2. nella guerra in Kosovo nel 1999, i mass media sono invece meno determinanti. La scelta della NATO di intervenire bombardando la Serbia e le decisioni successive fanno parte di una linea politica questa volta più decisa, su cui i media esercitano un’influenza più debole. 
Il fatto che questa volta sia la politica a riprendere le redini del gioco, riporta i media in parte a seguire l’agenda e i punti di vista dettati dall’alleanza atlantica ⇒ emerge soprattutto la tendenza alla demonizzazione del leader nemico, maggiormente adatta a supportare un intervento di tipo umanitario: invece che criminalizzare l’intero popolo serbo, i media si scagliano contro la figura di Milosevic, dipinto in modo ossessivo come un “nuovo Hitler”, un tiranno e un despota. 
MA, a parte questo, i media non riescono a costruire intorno alla guerra un grande evento mediatico: infatti, pur essendo una guerra televisiva, mancano le immagini. D’altra parte, i “danni collaterali” chi incrinano la fede nei bombardamenti chirurgici della NATO, i dubbi sull’efficacia di un attacco aereo nel fermare la pulizia etnica, i reportage che da Belgrado conferiscono anche ai serbi lo status di vittime creano una serie di dissonanze e di disagi nell’informazione. 
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Quella del Kosovo diviene a livello televisivo una “guerra delle emozioni”, in cui la sofferenza dei civili è l’unica certezza ⇒ i telegiornali costruiscono il racconto del conflitto mettendo in luce la progressiva intensificazione del dolore, in un crescendo di drammatizzazione degli eventi. 

Tratto da I MEDIA E LA POLITICA INTERNAZIONALE di Elisa Bertacin
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