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Claude-Adrien Helvétius

L'etica utilitaristica
Fra gli Illuministi Helvétius è il pensatore che più metodicamente sviluppa i temi del sensismo e dell'utilitarismo e delle loro applicazioni alla politica e alla legislazione. Nell'uomo tutto è sensazione: i suoi bisogni,le sue passioni, le sue idee, le sue volontà, le sue azioni si fondano sull'aggregazione delle sensazioni fisiche ed anche i giudizi e le capacità critiche non sono che rapporti fra dati sensoriali. E' inutile perciò ricorrere a spiegazioni di carattere spiritualistico, idealistico e metafisico. La sensività è anche il primo principio della morale le cui massime, una volta liberate dalle tenebre di una filosofia puramente speculativa, cessano di essere contraddittorie e possono essere intese e assimilate da tutti. Helvétius è all'origine della corrente materialistica dell'Illuminismo francese: ciò che conta nella vita individuale, così come in quella sociale, è la logica dell'interesse; tale criterio, a suo giudizio, non fomenta però il particolarismo inassociabile ma disvela progressivamente le condizioni reali della "felicità pubblica", aprendo alla morale ambiti di esplicazione più ampi e più realistici. Più che insistere su qualità etiche innate e su colpe e virtù da misurare in relazione a presunti principi metafisici, occorre compiere un'analisi veritiera dei bisogni e degli interessi e studiare come essi possono coesistere a vantaggio della generalità degli individui. La moralità non deve quindi essere vista in termini di immobilismo, né essere distaccata dai moventi effettivi delle azioni individuali. A suo giudizio la maggior parte dei governi e delle religioni si oppone all'idea del rinnovamento perché non ammette che l'etica privata e pubblica sia soggetta alle leggi dell'interesse e perché considera i bisogni umani e sociali come degli abusi, materia più di repressione che di analisi e di valorizzazione. Governi e religioni paventano il sovvertimento di regole morali tradizionali senza rendersi conto che attraverso la liberalizzazione dei bisogni e la ricerca del loro equilibrio che si perviene al bene comune, intendendo con tale termine ciò che è utile, piacevole e vantaggioso per il maggior numero di cittadini. La stessa idea di virtù dev'essere collegata al desiderio di felicità. L'orgoglio è alla base di tanti talenti e di tante pacifiche disposizioni individuali e perciò non va distrutto ma solo reso compatibile con le obbligazioni della vita coesistenziale. C'è una virtù fondata sull'interesse che attiva la creatività e che utilizza le risorse disponibili per accrescere il benessere generale e c'è invece quella che Helvétius chiama la "virtù di pregiudizio", fondata sull'inibizione e sulla rinuncia. Bisogna distinguere fra ciò che è considerato corruzione dal punto di vista dell'etica religiosa e ciò che è corruzione politica. Come la intende la religione, la corruzione è la trasgressione di principi che si presuppongono immutabili e patologicamente dati e dipende dal fatto che l'uomo, diventando arbitro di se stesso, cade in tentazioni materialistiche e conosce varie forme di "libertinaggio". Questa corruzione non è tuttavia, per Helvétius, sempre negativa perché se certe passioni umane hanno una loro libera possibilità di esplicazione e non sono deformate dall'ipocrisia e dalla repressione, esse mitigano le tensioni e le frustrazioni della vita personale e favoriscono insieme il benessere collettivo. Ciò che bisogna soprattutto contrastare è invece la corruzione politica che si ha sia "quando gli interessi privati si staccano da quelli pubblici", sia quando i fini esclusivistici dei governi non hanno riscontro negli interessi dei singoli membri della comunità e non forniscono loro alcuna garanzia.

La riforma della legislazione
Esiste per Helvétius un'implicazione fondamentale tra la scienza della morale e la scienza del governo e della legislazione. I vizi dei cittadini hanno sempre le loro matrici nei vizi delle loro leggi e delle loro istituzioni. Non si crea una concordanza tra gli interessi privati e pubblici abusando di una morale troppo austera. Se il fine della politica è la felicità temporale dei popoli, non la si persegue accentuando una rigidità di costumi incompatibile con le vocazioni della libertà moderna. Anche la religione dovrebbe assecondare questo spirito della modernità opponendosi alle stupidità e agli avvilimenti di certe idee anacronistiche che servono solo a perpetuare il conformismo morale e il dispotismo politico. Per essere una buona religione "dev'essere poco costosa e tollerante", non deve degradare l'intelligenza e l'animo con la paura del prete e non deve servirsi dei suoi dogmi per esasperare la severità di Dio. E' assurdo comunque che la politica sacralizzi il potere e lo spirito di conquista, svilendo le libere attività creatrici degli individui; una certa liberalizzazione degli interessi economici è fondamentale per lo sviluppo della società e non la si deve impedire criticando moralisticamente le leggi del profitto. La politica non deve reprime l'interesse privato con coercizioni innaturali che soffocherebbero il principio riproduttivo della vita e la stessa possibilità di azioni virtuose. Non si tratta quindi di colpire le passioni ma di orientarle verso il giusto equilibrio con le esigenze della felicità generale; non è vero che la temperanza e l'austerità sono matrici di prodigi sociali come sostengono i moralisti. Il lusso da contrastare è quello che risulta da una spartizione molto disuguale dei beni sociali ma si deve favorire quel "lusso nazionale" fondato su una certa uguaglianza nella divisione delle ricchezze pubbliche. Per una buona morale e per un migliore equilibrio degli interessi bisogna correggere quei postulati della religione e dell'autorità che si dimostrano poco sensibili a "riformare le leggi contrarie alla felicità del maggior numero". Un cattivo governo ha un'influenza deleteria nei comportamenti morali e sociali dei cittadini e con i suoi dogmi e i suoi falsi scopi fomenta la discordia e la decadenza. Anziché colpire sistematicamente i vizi privati, veri o presunti, bisogna colpire i pubblici abusi perché lì è la matrice di ogni male. La legislazione non sminuisce il suo prestigio se, anziché rispettare i canoni tradizionali dell'autorità, cerca di proporzionare con equità i bisogni dei cittadini, rendendoli meglio compatibili fra di loro e conciliabili con le misure dell'intelligenza e dell'esperienza comune.

L'educazione pubblica
L'educazione modifica le capacità di apprendimento dell'uomo e perfeziona i suoi poteri critici e le sue disposizioni morali. Il distacco dai propri interessi personali non è impossibile in una filosofia utilitaristica se i cittadini sono educati allo spirito di ricerca e di tolleranza e se la loro mente sa aprirsi a quello stato di sospensione che permette il libero accesso ad altre verità. Il fine dell'educazione è dunque quello di far vivere gli interessi e gli orgogli umani in simbiosi con gli interessi generali; occorre per questo estendere la funzione e la rilevanza dell'educazione pubblica rispetto a quella privata. A loro volta i comportamenti del governo e della classe politica non devono essere troppo difformi da quello che si apprende attraverso l'insegnamento scolastico. Ci sono due educazioni: quella dei maestri e quella data dalla forma di governo e se i precetti di queste due parti sono contraddittorie, la prima educazione non ha valore. Spetta alla "scienza della legislazione" armonizzare la molteplicità dei bisogni individuali e sociali in una prospettiva di liberalizzazione così come di garanzia collettiva. Con il suo utilitarismo Helvétius si situa in quella corrente di pensiero perseguita da Hume, Smith e Bentham, secondo cui gli interessi individuali, mediandosi e combinandosi, contribuiscono alla formazione del bene pubblico.

Ordine spontaneo e intervento statale
La fiducia nei poteri di autoregolazione delle attività private non è però in Helvétius così pronunciata: l'ordine sociale spontaneo non basta di per sé a garantire l'armonia fra il privato e il pubblico, che dipende anche dall'intervento della legislazione e dello stato. Egli è decisamente ostile al dispotismo, considerato il più potente nemico del bene pubblico, ma sembra accordare un certo credito al dispotismo illuminato come garante dell'equilibrio e degli antagonismi sociali, sempre che l'ordine normativo che questo regime politico promuove sia capace di correggere le combinazioni irregolari che provocano la miseria e sempre che la coercizione dello stato necessaria a conciliare l'interesse privato e pubblico non impedisca il diritto di ogni cittadini "di proporre alla sua nazione ciò che crede possa contribuire alla felicità generale". La riforma della legislazione in un senso più favorevole all'equità sociale non deve tuttavia minacciare l'istituzione della proprietà che, come la maggior parte degli Illuministi, anche Helvétius considera elemento fondamentale della vita sociale ed economica. Oltre che dell'inviolabilità della proprietà, la legislazione deve occuparsi di altri principi e di altri bisogni sociali anch'essi costitutivi dell'interesse pubblico e del benessere collettivo.

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