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John Locke

Assolutismo e costituzionalismo
La filosofia politica di Locke ha avuto una particolare incidenza nelle vicende politiche inglesi, essendo collegata al ristabilimento dell'equilibrio costituzionale fra monarchia e parlamento conseguente alla Glorious Revolution del 1688 ed al perseguimento di una politica di pacificazione e tolleranza religiosa. L'importanza di Locke, però, si è manifestata anche al di fuori del suo paese, specialmente in Francia, dove le sue teorie hanno avuto delle interpretazioni più radicali, ispirando i movimenti culturali che hanno preparato l'Illuminismo e la Rivoluzione francese. Uno dei motivi di successo della filosofia politica di Locke è dipeso anche dal fatto che essa si rivelava particolarmente adatta alle esperienze costituzionali di comunità di nuova formazione come le colonie americane. Un criterio comune di interpretazione del pensiero di Locke è di porlo come alternativo a quello di Hobbes: il primo fautore del costituzionalismo, della divisione dei poteri, della sovranità popolare, della democrazia (pur con tutte le debite differenze rispetto alle elaborazioni più moderne di questi principi), il secondo paladino dell'assolutismo politico. Questo paradigma interpretativo non è certo sbagliato, tuttavia un'analisi più approfondita può svelare fra questi autori anche delle affinità, almeno nel senso che Locke ha tratto da Hobbes l'esigenza di quella modernizzazione del pensiero politico che si esprime nella critica del corporativismo e nella rivalutazione dell'individuo come essenziale riferimento teorico e pratico della politica. Hobbes aveva cercato di emancipare l'individuo da certe sue appartenenze tradizionali, smembrando il tradizionale organicismo sociale e non considerando più il diritto naturale come tessuto connettivo di un ordine sociale legittimato; ne risultava una certa liberalizzazione della politica perché le formazioni collettive non venivano più riconosciute come strutture indecomponibili ma erano intese piuttosto come corporazioni fittizie, istituite per il raggiungimento di interessi largamente mondani e sostenute da poteri non più considerati derivazioni di una volontà trascendente. Locke nella sua principale opera politica, I due trattati sul governo, segue un metodo non troppo dissimile da questo, anche se fortemente diverse saranno certe sue conclusioni. Il simbolismo comunitario della tradizione giusnaturalistica sussiste ancora in Locke ma l'ascendente che esercita su di lui risulta certo attenuato; il suo interesse è soprattutto rivolto alle libertà ed ai diritti individuali. Egli non vuole tuttavia opporsi ad Hobbes facendo un passo indietro, cioè riproponendo il problema delle tutele delle libertà e dei diritti; l'individuo continua ad essere anche per Locke il protagonista delle nuove prospettive del sapere e dell'agire politico.
Un'altra idea che Hobbes gli ha fornito è quella di definire la struttura e le finalità del governo muovendo dall'analisi dello stato di natura: di quest'ultimo Locke si vale soprattutto per smentire l'assioma dell'assolutismo secondo cui "nessuno nasce libero".

Stato di natura e ragione naturale

L'intendimento lockiano dello stato di natura è comunque notevolmente diverso da quello di Hobbes: Locke non crede che l'uomo sia un semplice animale da combattimento, che l'egoismo e la prevaricazione siano i fattori costitutivi dell'esperienza umana e che l'individuo nei rapporti con gli altri sia costretto, per non farsi assalire, ad assalire per primo. Neppure reputa plausibile che, per liberarsi dalla paura reciproca, gli uomini vadano incontro a quella più insopportabile paura provocata dalla loro integrale sottomissione ad un potere esterno. La radicalizzazione degli impulsi inferiori dell'uomo viene rifiutata da Locke e sostituita da una considerazione più complessa della realtà individuale, nella quale i sentimenti della liberalità, della bontà e della cooperazione contrastano sempre i loro opposti. L'uomo non è per lui dominato da irrefrenabili impulsi di egoismo o di vanità che lo portano a considerare la benevolenza come una pura perdita ma è capace di esprimere anche sentimenti di equità e di solidarietà e la coesistenzialità rimane il carattere fondamentale della sua esperienza. Il bisogno della socialità è un bisogno naturale, prosecuzione ed esplicitazione della stessa potenzialità soggettiva: si potrebbe dire che per Locke esistere significa coesistere. Nello stato di natura l'uomo ha una certa consapevolezza di sé e del proprio valore così come della propria indigenza e limitatezza ed è quindi incline a collaborare con gli altri. L'etica personale implica che un certo rispetto per gli altri sia considerato condizione essenziale della stessa costituzione dell'io ed assuma il significato di una obbligazione permanente che l'uomo deve darsi in proprio, al lume della sua ragione o della rivelazione, e senza la mediazione costrittiva di un potere egemonico. Secondo Locke ogni uomo porta con sé la ragione naturale, la quale consente, se bene adoperata, di distinguere il giusto dall'ingiusto, il bene dal male, il diritto dall'arbitrio. Questa capacità naturale di discernimento e di giudizio non dipende tuttavia da principi innati; sussiste per lui una netta distinzione tra le facoltà naturali attraverso le quali si conosce e si ragiona e le presunte idee innate. Il suo pensiero rappresenta l'alternativa ai grandi sistemi di Cartesio, di Malebranche, di Spinoza. Non ci sono principi speculativi né pratici innati e non c'è il ricorso a valori ontologici che diano alla conoscenza ed alla morale degli statuti privilegiati metafisicamente garantiti. E' fatica sprecata cercare attraverso gli universali una "scienza perfetta" ed è abusivo pretendere di ricondurre ad unità la grande varietà di opinioni e di comportamenti morali.
Ciò che conta nel sapere è l'esperienza: tutto il materiale della ragione e della morale viene fornito dall'esperienza la quale è dunque la condizione fondamentale che consente all'intelletto umano l'esercizio delle sue facoltà discorsive. Ogni rappresentazione della coscienza proviene da percezioni sia esterne, cioè sensazioni, sia interne, cioè riflessioni, e attraverso le attività combinatrici della mente le percezioni diventano idee, suscettibili di gradi crescenti di complessità. Le idee hanno dunque per Locke un'origine empirica e derivano tutte dalle sensazioni, le quali però sono modificate da specifiche facoltà critiche e di giudizio che l'intelletto umano ha come sua attribuzione e che si perfezionano quanto più lo spirito viene rifornito di dati desunti dall'esperienza. Locke pone il sensismo all'origine delle idee ma le idee si coordinano nell'intelligenza e si applicano alla realtà in modo razionale, cioè attraverso l'uso corretto di poteri di riflessione e di giudizio che la natura ci ha conferito. Il sensismo di Locke non si propone dunque di privilegiare l'immediatezza sensoriale sulla mediazione critica ma vuole piuttosto dare materiali più certi all'attività razionale. Esperienza e ragione sono viste da Locke come componenti solidali dello stesso processo conoscitivo. Il suo intento principale è quello di formulare una teoria critica della ragione: egli rifiuta la ragione come puro strumento che deduce tutte le verità da presupposti assiomatici non sottoponibili a controlli e verifiche. La ragione non è possesso integrale di verità ma è sforzo continuo di ricercare la verità sulla base di dati verificabili; trova perciò il suo materiale e le condizioni della sua agibilità nell'esperienza. Le opinioni umane devono essere il prodotto di un giudizio cosciente e di una ragione deliberata; sempre pronta a correggersi in relazione alle ulteriori acquisizioni dell'esperienza, la ragione ha l'intrinseca capacità cognitiva e la connaturata obbligazione morale di coordinare al meglio delle loro possibilità le azioni umane.

Vita, libertà, proprietà
Esperienza e ragionevolezza sono per Locke matrici di un intendimento più equilibrato dei problemi della politica, rivolto ad escludere dogmatismi e a consentire alle correnti libere della vita di opporsi alle tentazioni assolutistiche del potere. Il potere non è l'incondizionato principio causativo della società e non può rappresentarne l'esclusivo criterio regolativo; esso non è un'essenza imperscrutabile ma una funzione che presuppone individui e parti sociali dotati di una loro relativa autonomia. Dio ha dato agli uomini il mondo in comune per farne attraverso la ragione "l'uso più vantaggioso alla vita e più comodo" e in questo piano non può rientrare l'affidamento della società ad una sovranità politica incondizionata. Quali che siano le prerogative dell'autorità, esse non possono pretendere di derivare da un patto di alienazione di diritti e di libertà individuali secondo l'ipotesi di Hobbes. Il governo non deve quindi proporsi come una monarchia assoluta, né deve essere assimilato all'autorità del pater familias: il contratto che lo costituisce presuppone individui liberi e la loro attitudine a formare istituzioni in grado di garantire queste loro libertà. Lo stato di natura ha molti inconvenienti ed è perciò necessaria la creazione di un governo civile ma Locke si domanda quale. Il ripudio dell'assolutismo politico è un'obbligazione imposta da una legge di natura: essendo infatti tutti gli uomini creature di un Dio onnipotente e infinitamente saggio ed essendo inviati nel mondo per suo ordine, essi sono stati creati "per durare fintanto che piaccia a Lui e non ad altri". Chi non può sopprimere la propria vita, non può conferire ad altri alcun potere su di essa. E' quindi dovere dell'uomo assumere la responsabilità del proprio coesistere e non abdicare integralmente alle sue fondamentali prerogative esistenziali e sociali. La vita dell'uomo è un patrimonio personale direttamente attribuitoci da Dio; lo stato deve intervenire per garantire questa esistenza senza pretendere né di inventarla, perché l'uomo l'ha già, né di espropriarla, né di condizionarne arbitrariamente la propria logica di espansione. D'altra parte questa vita da proteggere non si riduce all'incolumità fisica; l'individuo non è un essere puramente biologico e materiale. Nell'individualità c'è qualcosa di più della composizione puramente fisica: c'è un principio di libertà che ci consente di agire o non agire, di assumere la responsabilità delle nostre azioni. La libertà non può dipendere da dichiarazioni autoritarie dello stato che stabiliscano ciò che è lecito o illecito in relazione ad esclusive esigenze di potere; prima di essere nelle leggi sanzionate dal sovrano, la libertà è nell'esperienza comune intrinsecamente connessa a ciò che è essenziale nella vita umana. A questa connessione di vita e libertà Locke aggiunge un terzo elemento che è la proprietà, evocata come condizione e strumento di attività produttiva e insieme come ulteriore garanzia nei confronti del potere. La triade di Locke è appunto vita, libertà, proprietà, tutte matrici di diritti umani e naturali che l'autorità è tenuta a rispettare. La libertà non vive allo stato puro ma è mediata e socializzata dal contatto con il mondo dei beni naturali che l'attività creativa dell'uomo trasforma in beni civili. L'istituzione della proprietà dà quindi più concretezza alla libertà e rende più difficile l'espropriazione dei diritti naturali da parte del potere. Il ragionamento di Locke può essere così interpretato: se si riduce l'uomo a nuda esistenzialità, egli risulta privo di garanzie nei confronti dello stato il quale, con il pretesto di conservare la vita biologica dell'individuo, può compromettere aspetti essenziali della struttura complessiva dell'esistenza umana. Se si dice che la vita è anche libertà, si introduce nella composizione della soggettività un elemento qualitativo che trattiene le ambizioni del potere perché gli oppone un valore, appunto la libertà, che appartiene all'uomo in quanto tale.

Il valore del lavoro
Locke non parla dell'istituzione della proprietà come un teorico del medioevo: essa non è considerata dal punto di vista dell'oggettività della cosa bensì dal punto di vista della soggettività dell'uomo, con un significativo spostamento di simbologia rispetto alle formulazioni del corporativismo e del giusnaturalismo tradizionale. Se la proprietà rimane per lui un diritto naturale, non lo è nel senso che la cosa debba legare a sé l'uomo quanto piuttosto nel senso che l'uomo, con la sua libera attività, lega a sé la cosa attraverso espansioni mai interamente preventivabili. Il centro propulsore di questa attività è il lavoro. La proprietà si costituisce attraverso il lavoro, attraverso il dispiegamento di una energia creativa propria dell'uomo e che esso ha diritto di esercitare sulle cose per valorizzarle e per appropriarsene; con il lavoro si sviluppa la personalità del soggetto e insieme si socializzano le azioni umane. Rivalutando il valore del lavoro umano, Locke teorizza la proprietà in relazione a questa attività creativa: sono gli uomini che, con il loro lavoro, formano la maggior parte del valore della cosa mentre ciò che mette la natura è una parte molto inferiore e che progressivamente si riduce quanto più cresce la capacità produttiva degli individui. Il principio che il valore delle cose si risolve quasi per intero nel valore della creatività umana è dunque un postulato della dottrina di Locke sulla proprietà e sarà ripreso dalle successive teorie economiche, da quelle classiche liberali a quelle socialiste. Queste ultime, parlando di plusvalore, intendono ribadire che bisogna evitare che una parte di questo lavoro, non retribuita, vada solo a beneficio di coloro che sfruttano il lavoro degli altri. Si potrebbe pensare al lavoro come strumento di valorizzazione complessiva di beni che rimangono in comune ma Locke sostiene che le indistinzioni comunitarie e le promiscuità delle cose non sono socialmente produttive; Dio ha dato agli uomini il mondo in comune ma ha anche dato loro la ragione per farne l'uso più vantaggioso. Locke è potuto apparire come fautore di un individualismo possessivo che, attribuendo alla proprietà un peso preponderante sugli altri valori della vita, rischia di rendersi troppo disponibile a privilegiare gli interessi proprietari rispetto a quelli generali della società. Locke sostiene che il farsi proprietari non deve precludere la possibilità ad altri di diventarlo e non deve compromettere certe condizioni elementari di vita di cui ciascuno ha diritto di godere. Non ci dovrebbe essere un accaparramento così indiscriminato delle cose da ledere gli altri e da privarli della possibilità di trarre vantaggio dal loro lavoro. Non è certo un suo problema fondamentale quello della ripartizione o della ridistribuzione dei beni economici secondo i principi di giustizia sociale. Ritiene legittimo che ogni individuo arrivi sin dove può, sin dove la sua energia creativa gli consente di arrivare; la proprietà può esser criticata e contestata solo se provoca sperperi e distruzioni. Se Locke non mostra molta preoccupazione per il fatto che certi individui riescano ad avere ambiti più vasti di espansione rispetto ad altri, è anche per il suo convincimento che, criticando l'assolutismo politico e correggendo le storture che esso provoca nella società, possano aprirsi nuovi spazi alla creatività umana ed alla valorizzazione dei beni sociali. L'argomentazione di Locke è dunque che gli spazi che si aprono al lavoro umano sono bastevoli per tutti, se gli sviluppi produttivi non sono ostacolati da aritificiali restrizioni, da arbitrari privilegi, da fanatiche intolleranze. Sono le leggi medievali e feudali che, con i loro pregiudizi e i loro anacronismi, restringono lo spazio sociale ed economico da aprire invece animosamente alla libera creatività. C'è nella mentalità di Locke l'idea che l'intrapresa umana possa andare oltre il già conosciuto, possa infrangere le barriere di tradizionalismi sclerotizzati e dare quindi nuove prospettive al lavoro umano e insieme ai valori di quella giustizia che consiste per lui soprattutto nella rimozione di discriminazioni artificiali e improduttive. Se si riesce a liberalizzare il mondo sociale ed economico, le appropriazioni private non saranno incompatibili con i diritti altrui perché resteranno sempre disponibilità di nuovi beni da valorizzare. Lo spirito proprietario è intransigentemente sostenuto da Locke perché se si distrugge la proprietà, non si possono porre limiti al potere che diventerebbe così proprietario di tutto e controllerebbe non soltanto la vita economica ma anche la vita civile e spirituale dei cittadini. Nei Pensieri sull'educazione Locke pone il problema pedagogico che l'osservanza dei diritti concernenti il mio e il tuo non inaridisca i sentimenti della bontà e non fomenti l'ambizione ad "avere in nostro possesso e sotto il nostro dominio più di quanto ci occorre". L'avidità nella proprietà e nel possesso è alle radici "di quasi tutte le ingiustizie e le contese che tanto turbano la vita umana" ed è bene che essa sia contrastata da "abitudini contrarie". La società non tollera i pesi esorbitanti dell'autorità, né ammette pretese di rifacimenti integrali delle attività individuali e collettive. Il problema della politica è quindi di passare dal simbolismo e dalla pratica del potere assoluto al simbolismo ed alla pratica del potere limitato e di ritrascrivere tutti i concetti politici attraverso questa idea del limite. Il potere è necessario perché non si può fare troppo affidamento sull'idea dell'ordine spontaneo e dell'autogoverno sociale. Il fatto è che nello stato di natura c'è sempre un elemento di precarietà, di incertezza, di inconcludenza, di eccessiva problematicità, che può essere superato solo da una disciplina normativa e da un sistema di controlli facenti capo ad un governo. Locke ammette che non tutti gli individui riescono a rendersi sociali ed ad accettare la legge di natura come legge di rispetto e di giustizia; nello stato di natura ciascuno sarebbe giudice di se stesso. Sensibile ad una educazione umanistica, Locke considera certo un bene che l'individuo si abitui ad essere giudice di se stesso ed a esercitare su se stesso la sua valutazione critica; sarebbe tuttavia troppo pretendere che ciascuno non inclini a far prevalere, in ogni controversia che lo riguarda, idee ed interessi personali. Il giudice ha invece come sua funzione di essere sempre al di sopra della parti. Il potere politico deve aggiungere perciò alla società ciò che le manca, cioè soprattutto una normativa affidata all'imparzialità dei magistrati. Locke considera il potere politico come una magistratura, il cui compito consiste nel dirimere i conflitti e nell'assicurare alla vita sociale la pacifica coesistenza e, in particolare, la tutela della proprietà. Le leggi non devono quindi variare a seconda dei casi particolari e dei diversi ceti sociali ma devono imporre a tutti una sola regola; il solo scopo che ha portato alla costituzione del governo civile è la preservazione dalla frode e dalla violenza reciproca fra gli uomini e ciò rimane per Locke il criterio fondamentale dell'azione di governo. Il potere non è perciò un principio di organizzazione che modella la società secondo un certo precetto ma è essenzialmente un principio di garanzia che favorisce il libero gioco delle parti, limitandosi a stabilire i criteri generali della coesistenza. Lo stato non dice in quali specifiche direzioni debbano muoversi e cosa debbano fare i cittadini; questo lo decide ciascun individuo secondo il suo interesse e la sua responsabilità personale. Il potere politico interviene sulle diverse azioni individuali solo per renderle compatibili con le esigenze fondamentali dell'ordine sociale: le leggi non servono per unificare la molteplicità degli interessi e degli scopi ma semplicemente per garantirne la loro coesistenza e la libera manifestazione. Affinchè il potere adempia alle funzioni per le quali è stato istituito, occorre per Locke che esso emani dal consenso popolare. L'autorità legislativa risiede per lui nel popolo e viene esercitata attraverso i suoi rappresentanti; è il popolo che deve provvedere alla propria sicurezza, dando fiducia al potere legislativo e togliendogliela quando esso agisce in modo arbitrario. Emanazione della volontà e del consenso popolare, il potere legislativo domina tutte le altre autorità e funzioni pubbliche; dove finisce la legge popolare comincia la tirannide. Al monarca rimane il potere esecutivo, cioè l'esecuzione delle leggi civili della società, e quel "potere federativo", come lo chiama Locke, che provvede alla sicurezza e all'interesse dello stato nei confronti del mondo esterno. In questa divisione dei poteri,tuttavia, il rispetto della legge che emana dal popolo è il criterio fondamentale di legittimità e perciò il popolo può opporsi, anche con la forza, all'arbitrio del sovrano, rifiutando il falso principio conculcato dall'assolutismo che la dissoluzione di un governo faccia tutt'uno con la dissoluzione della società.

La libertà religiosa

I limiti che il costituzionalismo di Locke impone all'autorità servono a proteggere i beni civili e in particolare la proprietà ma tali limiti sono anche rivolti alla tutela della libertà della coscienza ed alla affermazione del principio di tolleranza in materia religiosa, morale e culturale. Una libertà "assoluta e universale" deve essere garantita in materia di opinioni speculative e di culto divino. Non compete al magistrato orientare la coscienza dei cittadini, ognuno può pregare il proprio dio nei modi che crede se ciò non turba l'ordine pubblico. Per Locke non solo la Chiesa è distinta dallo stato, è una "libera società di uomini"; questo carattere di "società libera e volontaria" della Chiesa impone l'obbligo, anche da parte dell'autorità ecclesiastica, di non ledere i fedeli con azioni violente. Si possono dare agli eretici sanzioni religiose ma non sanzioni lesive dei loro diritti civili e politici. Il principio della tolleranza religiosa non significa tuttavia, per Locke, accettazione di una privatizzazione della verità; egli non vuole confondere la tolleranza con l'ammissione dell'ateismo. La fede religiosa è garanzia della buona fede politica. Questo suo orientamento ha anche una giustificazione pratica: tutta una serie di transazioni economiche si facevano nell'Inghilterra del suo tempo sulla base del giuramento che nei contratti sostituiva anche gli impegni scritti. L'ateo potrebbe spergiurare e così facendo mettere in crisi una serie di rapporti interpersonali e sociali. Esclusi dai benefici della tolleranza sono anche i cattolici o, come si diceva, i papisti e questa appare in effetti una limitazioni ben pesante per un teorico così convinto del principio della libertà religiosa. Le motivazioni di questa esclusione sono tuttavia in Locke più di carattere politico che teologico: i Cattolici devono essere contrastati non per il loro credo ma perché riconoscono l'autorità assoluta del papa anche in materia non di fede. Essi sono servi di una potenza straniera, rappresentano perciò un elemento di turbamento nella vita nazionale perché non credono alla propria patria ma solo alla patria romana e il papa, che li può dispensare da ogni patto, può renderli spergiuri. Perché siano tollerati, Locke chiede che i Cattolici abbiano una certa autonomia dal papato e riescano ad assimilarsi alla vita politica nazionale in modo che quella da loro professata sia solo una religione ed escluda una organizzazione al servizio di poteri esterni. Rimane comunque fermo in Locke il principio che la forza è sempre un modo sbagliato di togliere i dissenzienti dalle loro convinzioni; i magistrati civili non devono perciò penetrare nell'intimità delle coscienze e non sono affatto tenuti a promuovere in modo coercitivo la vera religione che sarebbe poi la religione che essi sono persuasi esser quella vera.

Esperienza, ragione e rivelazione

Ragione e rivelazione possono cooperare per dare autorità a ciò che è utile come regola etica dei comportamenti umani; c'è una ragionevolezza del cristianesimo che riesce appunto a conciliare la riflessione umana e la Rivelazione divina. Non si toglie affatto valore alla Rivelazione però è un errore pretendere che ciò che la ragione conferma possa essere considerata "una prima conoscenza". Razionalista ed empirista, Locke riconosce tuttavia i limiti della ragione e dell'esperienza e cerca nella fede la legittimazione del conoscere e dell'agire morale. L'autonomia del pensiero non è un valore che tutti riescano a praticare in modo positivo e produttivo, il Cristianesimo esercita dunque una funzione storico- sociale di educazione. Il libero esame è per Locke parte integrante del principio della tolleranza. Chi dopo un'indagine leale assume un errore invece di una verità, merita di più di chi accoglie passivamente una verità ma la religiosità rimane un criterio fondamentale anche per legittimare la libertà e la ragione. Il sensismo, l'empirismo e l'utilitarismo di Locke sono dunque sostenuti dalla ragione ma la ragione cerca a sua volta in una ispirazione religiosa un più veritiero e positivo criterio di legittimazione dei suoi diritti e delle sue obbligazioni.

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