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L’avvento del mostro e la devoluzione del volto


La quarta sequenza è un’unità narrativa molto composita. Treves esce dall’ospedale, osservato dal collega da una finestra. Il dottore attraversa strade in cui sono presenti macchinari attorno ai quali si dispiega l’attività febbrile e “meccanica” di alcuni uomini.
L’oscurità squarciata dalla torcia che impugna il dottore impedisce il distacco clinico: è come se tutta la situazione pesasse addosso a Treves, per responsabilità (ha commissionato l’incontro), per sovraesposizione (è in balia di un disperato senza più scrupoli, quale è certamente Bytes, e di un essere misterioso), per coimplicazione estesica (la torcia costruisce un intorno denso di energie irradiate, uno spazio di intimità inopportuna).
Bytes non rinuncia al suo discorso da imbonitore, quasi avesse di fronte a sé la solita schiera di curiosi; Treves viene rubricato come spettatore di fiere malgrado egli potenzialmente auspichi una sua singolarizzazione (vuole vedere ma per altri motivi). Dal racconto “mitico” di Bytes emerge che la ruota del destino si è fermata in un punto cieco d’umanità; il vilipendio dell’atitropico è una madre schiacciata (compromissione della riproduzione della specie) da un elefante selvaggio (negazione del dominio della civilizzazione) in un’isola sconosciute (emergenza di un deficit cognitivo paradossale: la donna si trovava in un posto ignoto, forse ignorato, certo anonimo).
Il silenzio in cui si svolge la presentazione rituale di Bytes viene trasposto, al momento in cui officia l’ostensione del corpo del mostro, negli inviti perentori a girarsi, reduplicati tra l’altro dal ragazzino. Proprio mentre la liturgia rovina in tortura, sale una musica che contrappone alle pulsioni intensive degli ordini la tessitura di un adagio, a falde, in un processo corsivo e progressivamente evanescente. La musica, coordinata con il primo piano in avvicinamento, strania la teatralità macabra dell’ostensione e privatizza il confronto con il “mostro”: per qualche istante, quel corpo deforme è tutto il mondo di Treves, l’epicentro di una vulnerabilità violata senza prognosi e senza difesa. La curiosità di Treves - peccato confessato per nasconderne uno peggiore, quello di ricondurre un disordine biosociologico a scienza - non viene appagata dalla visione del mostro. il voler sapere è colmato in modo letteralmente esorbitante; lo sguardo diviene preghiera, deve accedere alla massima modestia, farsi recitativo, come il ripetersi e trasporsi continuo di uno stesso formante musicale esemplifica, non contenendo il tempo a cui accede e limitandosi a solcarlo, fino a spegnersi.

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