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L'Autunno caldo

L'Autunno caldo

Narra il lungo tramonto dell’industria italiana l'esperienza dei distretti industriali,l'emergere della media impresa. Il racconto prende le mosse dall'Autunno caldo. Evoca il tramonto dell'industrialismo accelerato da spinte centrifughe, minato dalle trasformazioni che scalzano la centralità della produzione industriale in Occidente. E’ la crisi degli istituti e dei modelli legati alla grande industria e alle sue dimensioni di massa. La decadenza dell’industrialismo si fa visibile man mano che la mobilitazione economica della società si accentua e gli schemi propri delle grandi organizzazioni lasciano il posto a un microcapitalismo capillare, capace di intridere della logica dell’impresa forme di attività e comportamenti mentre attenua i loro caratteri industriali. Autunno caldo: un lungo tramonto.
Alla Fiat non sono trascorsi che tre anni dal suo insediamento al vertice della FIAT che Gianni Agnelli deve affrontare un problema piuttosto difficile: il rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici (1969). La vertenza procede per tutta la prima metà dell'anno più o meno aspramente rispetto alle volte precedenti, ma all'inizio di settembre le cose cambiano radicalmente ed emergono nuove, inattese forme di sciopero: incomincia quello che verrà subito battezzato autunno caldo.
La stagione del centrosinistra era diventata per le grandi imprese private l’epoca del ritorno a una normalità opaca.
Il sistema industriale italiano nel suo complesso si volgeva all’indietro invece di protendere in avanti.
È forte il conservatorismo degli ambienti economici, perplessi verso ogni mutamento della scena sociale e politica. Il mondo economico comincia a dare segni di stanchezza.
Si avverte un travaglio interno all’industria e la necessità di una revisione di rotta.
Il fallimento culturale e sociale, molto prima che tecnico e produttivo, dell’ortodossia taylorfordista rendeva necessarie nuove forme di consenso, capaci di oltrepassare il luogo di produzione per investire la società e  i meccanismi di riproduzione della forza lavoro.  La crisi si rispecchiava nella disaffezione al lavoro e nel senso diffuso della sua inutilità. Alla fiducia, propria dell'era fordista, nella contrattazione collettiva, è subentrato un nuovo individualismo; il ruolo sociale svolto dai sindacati si è ridimensionato e, nello stesso tempo, si è verificata una sensibile contrazione dell'intervento dello stato nell'economia, in particolare nel settore industriale, come attesta il diffuso processo di privatizzazione avvenuto nelle economie di mercato sviluppate.Le concentrazioni produttive di massa proprie del modello fordista avevano prodotto, assieme alla diffusa dequalificazione, una spiccata solidarietà di classe, rafforzando le potenzialità della protesta operaia in fabbrica e nella società. I lavoratori scioperano al di fuori delle direttive del sindacato, sono scioperi improvvisi, l'effetto è paralizzante. Si discute sulla legittimità di questo tipo di sciopero. Il sindacato prima disapprova, poi giustifica ed infine, si adegua, cioè cerca di far rientrare anche questa forma di protesta nell'alveo dell'iniziativa sindacale, per timore di perdere consensi ed essere scavalcato da organizzazioni spontanee ed incontrollabili.
La vertenza si chiude nel gennaio del 1970 con un contratto molto oneroso per le aziende e con concessioni normative consistenti che incideranno pesantemente sul futuro. Fra l'altro vengono abolite le differenze territoriali per la determinazione del minimo sindacale del salario.


Tratto da L'ITALIA DELLE FABBRICHE di Cristina De Lillo
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