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Il discorso alla Nazione di Barack Obama del 31 agosto 2010

The Americans who have served in Iraq completed every mission they were given.  They defeated a regime that had terrorized its people […]. So tonight, I am announcing that the American combat mission in Iraq has ended.  Operation Iraqi Freedom is over, and the Iraqi people now have lead responsibility for the security of their country.
Barack Obama  - 31 agosto 2010 - discorso alla Nazione

La notte del 31 agosto 2010, il Presidente degli Strati Uniti Barack Obama ha annunciato dallo Studio Ovale la fine delle operazioni militari in Iraq. Mantenendo la sua principale promessa elettorale, a tre mesi dall’appuntamento con le elezioni di Midterm, il Comandante in Capo dell’esercito americano ha  richiamato in patria anche la quarta brigata della seconda divisione di fanteria. Lo ha fatto dopo sette anni e cinque mesi di guerra, durante i quali sono morti 4.415 soldati americani, circa 35.000 sono stati feriti o mutilati e almeno 100.000 Iracheni sono stati uccisi. È il bilancio più grave dai tempi della guerra del Vietnam. In Iraq restano ancora 56.000 soldati statunitensi, con “compiti di addestramento”, oltre a 7.000 contractors, quei dipendenti delle multinazionali americane che hanno in appalto il settore della sicurezza e che sono state in questa guerra al centro di gravissimi scandali, dalle torture dei prigionieri iracheni ai massacri di civili. 
L’ultima brigata combattente statunitense si è lasciata alle spalle un Paese in cui il sogno della democrazia e del benessere modello U.S.A. - che l’amministrazione Bush sosteneva di potere e volere “esportare” - è ancora ben lontano dall’avverarsi: l’economia stenta a decollare, con una produzione di petrolio che non ha ancora raggiunto i livelli di prima della guerra – quando, tra l’altro, c’era l’embargo –, solo il 20% della popolazione è allacciata alla rete fognaria, il 45%  ha accesso all’acqua potabile, il 50% riceve corrente elettrica per almeno dodici ore al giorno. Un Paese  in cui i quasi due milioni di cittadini fuggiti all’estero – i più ricchi e qualificati – non se la sentono di tornare in patria. 
Il ritiro dalla campagna irachena, che Obama aveva sempre definito «stupida» – perché basata sull’invenzione della ricerca di armi di distruzione di massa in un Paese che non aveva mai costituito una minaccia terroristica per gli Stati Uniti -  avviene in un momento in cui l’opinione pubblica ha già fortemente preso le distanze dal sogno neoconservatore della superpotenza americana che primeggia sul mondo come Impero del Bene1. Del resto, come nota Lucio Caracciolo2 «del cambio di paradigma si erano già accorti nel 2006 due tra i più acuti critici della campagna di Mesopotamia, John Hulsman e Anatol Lieven: “ciò che è fallito in Iraq non è stata solo la strategia dell’amministrazione Bush, ma tutto un modo di vedere il mondo, ovvero la fede che l’America sia insieme tanto potente e tanto ovviamente buona da poter diffondere la democrazia; che questa la si possa ottenere con la guerra; che così si proteggano anche specifici interessi nazionali americani; e che tale combinazione sarà naturalmente sostenuta dalla gente di buona volontà dovunque nel mondo, a prescindere dalle tradizioni politiche, dall’appartenenza nazionale, dagli interessi nazionali”».
Questa crisi di fiducia nei confronti della politica estera americana (in Iraq, ma anche in Afghanistan) da parte della maggioranza degli Americani nasce dall’altissimo numero di morti e feriti di un’operazione militare di cui George W. Bush aveva già proclamato la fine il 1° maggio 2003, dopo soli due mesi di combattimenti. Certamente anche da una situazione di «debito pubblico fuori controllo e disoccupazione quasi a due cifre3». Ma anche dagli spunti di riflessione provenienti dai “mediatori di memoria”4 che in questi anni di guerra hanno informato i cittadini in merito alle storture dell’operazione Iraqi Freedom, dalle infondate motivazioni della dichiarazione di guerra, agli interessi economici delle multinazionali degli appalti legate all’amministrazione Bush, anticipando una nuova chiave interpretativa della campagna irachena, ormai ampiamente condivisa. 
Alla base di queste considerazioni sul ruolo dei “mediatori” sta un’idea della memoria come «“campo di battaglia”, dove niente è neutrale e ogni cosa viene continuamente ridiscussa5». Ciò significa che, così come la classe egemone ha i suoi mediatori di cultura6 (potremmo ad esempio citare Edward Luttvak come mediatore “ufficiale” del discorso americano in politica estera?7), a questi corrispondono controcanti culturali provenienti “dal basso” che contribuiscono a sensibilizzare l’opinione pubblica su nuovi temi e prospettive, riuscendo talvolta a produrre grandi cambiamenti nelle idee dominanti di una società.

Tratto da LA MISSIONE AMERICANA IN IRAQ di Isabella Baricchi
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