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Kathryn Ann Bigelow: The Hurt Locker (2008)

L’opera di K. Bigelow, con la quale la regista ha vinto il premio Oscar, è ambientata in Iraq, ma potrebbe esserlo su qualsiasi altro fronte di guerra. È infatti un’analisi più generale della dipendenza e dell’alienazione che può nascere in chi rischia costantemente la vita su fronti di guerra, ma anche una riflessione “universale” sugli alibi che tutti noi troviamo per non affrontare la “vita vera”.
La storia è infatti quella di una squadra di artificieri e sminatori dell'esercito statunitense, unità speciale con elevatissimo tasso di mortalità, di stanza in Iraq. Quando tutto quel che resta del suo predecessore finisce in una "cassetta del dolore", pronta al rimpatrio, a capo della EOD (unità per la dismissione di esplosivi) arriva l’artificiere William James, un uomo che ha disinnescato un numero incredibile di bombe e sembra non conoscere la paura della morte. Uno che non conta i giorni, un volontario che ha scelto quel lavoro e se ne è lasciato assorbire fino al punto di non ritorno.
James è un uomo schiavo del pericolo, dell'emozione forte a tutti i costi: la sua camminata dentro la tuta sembra la passeggiata sulla luna di un dead man walking. Dopo un inizio di repulsione nei confronti di questo personaggio sbruffone con i tratti del ranger, nello scoprirne i tratti umani (l’amicizia nei confronti dei commilitoni, l’affetto per un bambino iracheno, l’inadeguatezza nel vivere la vita quotidiana con la moglie e il figlio) lo spettatore diventa empatico con lui. Capiamo infatti, nel corso del film, che James non è che una vittima dei meccanismi di guerra. E che la guerra è per lui un grande contenitore di alibi (chi non ne ha?) per non affrontare quello che lo spaventa veramente, ovvero le emozioni della vita quotidiana. Perché, sembra suggerire Bigelow, morire è facile, è vivere che è difficile. 

Tratto da LA MISSIONE AMERICANA IN IRAQ di Isabella Baricchi
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