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Il commercio come centro della prospettiva settecentesca



La prospettiva tipicamente settecentesca fu quella di vedere nella traiettoria degli imperi europei l'infelice esito dell'incontro tra più culture ad uno stadio decisivo e diseguale del loro sviluppo storico. Se i coloni fossero stati ad uno stadio meno avanzato, si diceva, sarebbero stati cacciati dall'America, dall'Asia e dall'Africa e costretti a commerciare in pace e alla pari con gli indigeni, come avveniva in Cina. Se fossero stati illuminati come i critici che li attaccavano, non si sarebbero mai sognati di imbarcarsi in un progetto di conquista e di colonizzazione. Secondo Adam Smith era stata la loro coscienza di superiorità bellica a spingerli ad adottare una politica violenta e brutale.
L'unica cura, il rimedio dal male come diceva Rousseau, sembrava uno solo: il commercio. Il commercio sembrava a molti l'unica alternativa possibile per trasformare i vecchi imperi europei in moderne comunità cooperanti e produttive. Nella storiografia del Settecento e dell'Ottocento la parabola che aveva portato dal ricercare oro e gloria militare, dall'evangelizzare all'inseguire il benessere con il commercio e l'agricoltura apparve consustanziale ad una visione dello sviluppo umano e sociale in cui la guerra sembrava solo una fase dello sviluppo storico dell'umanità.
Dalla guerra al commercio.
Nel Settecento la conquista sembrava il comportamento di forme sociali elementari, segnate dalle ristrettezze economiche esperite da comunità in cui era prevalente la caccia e la raccolta di cibo non coltivato. Il commercio rimpiazza la conquista; la conversione e lo scambio volontario dei beni hanno sostituito la guerra. Le Mercier disse che le società di conquista erano possedute da un fuoco divorante che le avrebbe condannate, e questa fu la sorte di Roma. Al contrario, le società moderne perseguivano obiettivi commerciali, convinte che era più vantaggioso assicurare la prosperità dei vicini, piuttosto che conquistarli, poiché in un mondo basato sul commercio la prosperità di una nazione dipendeva dal benessere delle altre. Ma c'era un aspetto diverso e molto più sfaccettato nella visione che questi autori avevano delle conseguenze delle relazioni commerciali. Secondo Adam Smith il commercio non era solo uno scambio di merci, ma anche di conoscenze e di progressi di ogni specie che un vasto commercio da tutti i paesi verso tutti gli altri porta con sé naturalmente, o piuttosto necessariamente. Secondo Paul Ulrich Dubuisson, il commercio era la scienza dei bisogni degli altri. Non per niente la parola commercium nell'antichità intendeva scambio di beni, acquisizione di sapere e nozione di umanità comune. Il commercio univa tutti come in una grande famiglia. Ci fu chi ammise che Colombo aveva avuto come obiettivo principale l'apertura dei canali di comunicazione con nuovi popoli, e Diderot disse che il commercio un giorno sarebbe diventato il promotore di un nuovo ordine mondiale, di un nuovo impero basato sulla reciprocità.
Mirabeau, nel suo L'Ami des hommes, pur occupandosi di popolamento, anzitutto si preoccupa di stabilire le condizioni possibili di una futura Monarchia universale. Questa monarchia non sarebbe stata, come in passato, un sinonimo di devastazione universale ma una alleanza condivisa tra nazioni che commerciavano.


Tratto da LA NASCITA E L'EVOLUZIONE DELL'IMPERIALISMO di Gherardo Fabretti
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