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Le nuove idee imperialiastiche del 1700


Alla fine del 1700 si fa strada una idea diversa da quella che aveva animato le prime imprese imperialistiche. Gli imperi europei erano nati non sulla base del calcolo dei possibili benefici che potevano derivare dai colonizzati ai colonizzatori ma sull'idea che la grandezza di un governo era la misura della grandezza del suo popolo. Che fossero deboli o poveri in patria non importava poiché il bene collettivo derivava dalla capacità di dominare oltemare. Tutto ciò che esulava da tale prospettiva non veniva considerato, compreso il vagliare quali vantaggi traessero coloro che dovevano subire l'espansione. Nel Settecento, invece, l'onore e la grandezza, che erano stati gli argomenti principali del pensiero politico, iniziarono ad apparire un limite per lo sviluppo di un paese e un rischio pe la comprensione precisa di cosa fosse il bene per la società. Il mondo iniziava a rifiutare quasi tutti i valori su cui erano stati fondati gli imperi antichi e si faceva largo il riconoscimento della domanda di diversità.
Un nuovo linguaggio.
Il nuovo linguaggio politico non partiva dai concetti di conservazione e onore, né dalla machiavelliana grandezza, piuttosto partiva da quella che iniziò a chiamarsi pubblica felicità, quella che oggi noi chiameremmo benessere o welfare. Il mutamento si basava sul fatto che gli interessi degli Stati fossero anzitutto espressione del bene degli individui di cui era composto, e mirava a realizzare quello scopo. Dunque si manifesta un lento passaggio del linguaggio politico dai termini dell'onore, dei diritti e della legittimità a quello della pubblica felicità, dei benefici e degli interessi; interessi dei membri di una comunità e i benefici che ci si poteva aspettare dal farne parte. Da quel momento le società si poterono considerare grandi e legittime solo sulla base del grado di felicità dei suoi membri. Nella teoria non esisteva più uomo di stato né suddito di qualche principe, né comando di una legge di natura che potesse fungere in ultima istanza da arbitro nei conflitti di legittimità. Tornava in campo l'antica nozione di umanità. Gli imperi troppo estesi erano insopportabili dal punto di vista umano, e non solo per il controllo e il comando, che davano infiniti problemi, o per i problemi di amministrazione della giustizia, ma per il fatto che i membri di imperi così grandi non condividevano per niente la complicità che scaturisce tra le persone nella vita privata, la capacità di tenere conto dei loro disparati interessi. La pubblica felicità poggiava sul talento di ciascun uomo nel perseguire i propri fini personali senza farli confliggere con quelli dei cittadini e delle cittadine. Una comunità era tale perchè poteva perseguire una varietà di scopi diversissimi senza che sorgessero conflitti. Doveva essere dunque meno estesa del passato ma fondarsi su una condizione di eterogeneità culturale. Invece gli imperi fino ad allora erano basati sulla concezione romana e cercavano di imporre a tutti un singolo fine per tutti i desideri umani e una sola nozione di felicità. Nel perseguire tali scopi gli imperi avevano cercato di assorbire tutti gli spazi utili alla vita umana.
Questa nuove idea di impero affondava le sue radici nelle affermazioni umanistiche della seconda metà del Cinquecento. Ad esempio in Spagna Domingo de Soto, Vàzquez de Menchaca e Diego Covarrubias basavano la legittimità di un impero dai benefici che portava a tutti coloro che ne facevano parte. Si basavano su due assunti:

- Tutte le comunità avevano dei limiti naturali che forzatamente estesi avrebbero solo violato la legge naturale, perchè se la legge stabilisce che la comunità deve servire la propria gente, è chiaro che un'area troppo estesa impedisce di svolgere correttamente il compito.
- Gli imperi d'oltremare, per la necessaria traversata degli oceani, rappresentavano quasi una violazione delle intenzioni della natura: una natura che aveva sorpassato lo stadio nomade dell'esistenza e suggeriva di rimanere dov'era.

Secondo questa analisi non vi era ragione per affermare che ciò che era desiderabile per una comunità lo fosse necessariamente per un'altra; né, se anche fosse così, che si rendesse possibile imporre modelli di convivenza strutturatisi in un certo modo su altre culture, con altre storie e altri sistemi di credenze alle spalle.


Tratto da LA NASCITA E L'EVOLUZIONE DELL'IMPERIALISMO di Gherardo Fabretti
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