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Il Leviatano di Hobbes


11.14 Thomas Hobbes è uno dei più grandi sostenitori dell’assolutismo e della totale supremazia dello Stato sugli individui: al di fuori del diritto alla sicurezza personale, non c’è nessun altro baluardo di difesa del singolo dall’intervento dell’autorità assoluta (pertanto è impossibile la separazione fra sovranità e proprietà, che alcuni avrebbero voluto attribuirgli).

11.15 Hobbes vive un secolo segnato da rivoluzioni e guerre civili e religiose, e non arriva a vedere il glorioso esito della Rivoluzione inglese, pertanto vive un clima di assoluta insicurezza e mancanza di certezze. Da qui deriva la sua volontà di riformare completamente il pensiero umano, in polemica con l’astrattezza cartesiana: in particolare, il suo obiettivo è di conferire alla politica la rigorosità della geometria, così da farla diventare una scienza certa perché fondata sui principi della natura.

11.17 Il problema della sopravvivenza (che nasce da un’analisi negativa della natura umana) è connesso con la necessità di uscire dall’incertezza e di entrare in una sfera di certezza e, soprattutto, sicurezza. La politica deve essere certa, e deve avere gli stessi fondamenti inconfutabili della geometria: si rivela l’anima costruttivistica di Hobbes, tant’è che il Leviatano viene da lui definito come un Artificial Man.

11.18 L’uomo artificiale si può costruire solo a imitazione della natura, con un preciso progetto, senza il quale si rimane nello stato di natura, segnato da una “guerra di tutti contro tutti” dovuta all’eccessiva libertà (e all’insicurezza che ne deriva: LIBERTA’ = INSICUREZZA). In questa situazione, si determina uno stato di continuo timore che porterebbe l’uomo a vivere isolato, se non sapesse che non può farlo. Ma vivere insieme all’altro è visto, da Hobbes, come una forma di negativa concorrenza, spogliata dei suoi aspetti positivi, che procura uno stato continuo di guerra, da cui la necessità di un potere certo e assoluto.

11.19 Nello stato di natura non è garantito il rispetto delle regole e, dunque, neanche la pace: serve allora istituire un potere forte che, in senso utilitaristico, sappia garantire il rispetto delle regole. Esse nascono da un patto precedentemente stabilito, che implica la sottomissione di tutti i cittadini al detentore del potere (a meno che quest’ultimo non si dimostri incapace di mantenere pace e sicurezza). Con il contratto nasce la legge, e tutto il potere che ognuno ha nello stato di natura è rimesso nelle mani di un terzo – il sovrano – che non può essere limitato in alcun modo.

11.20 Gli individui rinunciano alla loro libertà per avere quella sicurezza che nessuno stato di natura può garantire. Nasce così un potere assoluto, che si determina o per la straordinarietà di una personalità che si impone, o per la volontà dei cittadini che lo scelgono. In ogni caso, ogni protesta contro il sovrano è vista come un atto di ingiustizia (non si può accusare chi ci mantiene in vita e ci assicura la pace): il patto, allora, è insieme PACTUM UNIONIS e PACTUM SUBIECTIONIS, con un trasferimento di potere nelle mani del sovrano assoluto e definitivo. Gli unici limiti al suo potere sono il rispetto delle leggi da lui stesso create e il successo: le sconfitte politiche generano sfiducia nel corpo sociale, fino a rigettarlo nel precedente stato di insicurezza.

11.21 Hobbes sostiene addirittura l’identità del governo temporale con quello spirituale (la religione è vista solo nel suo valore civile), tant’è che il sovrano, se avesse tempo, potrebbe anche amministrare i sacramenti per tutti i fedeli. Anche la religione, quindi, deve dipendere dalle leggi politiche; per raggiungere la salvezza, inoltre, non basta la fede, ma serve anche l’obbedienza, possibile solo nell’intima convinzione che non c’è contrasto fra le leggi di Dio e le leggi degli uomini. La religione, dunque, non è altro che un’ulteriore forma di collante civile.

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