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Il termine "àpeiron": Anassimandro

A differenza di Talete, per quanto riguarda Anassimandro (Mileto 610/609 a.C.) conserviamo non solo delle testimonianze, ma anche dei frammenti. Il frammento ci è tramandato da Simplicio:

« [Anassimandro ha detto:] Principio degli enti è l’illimitato. Da questo, infatti, gli enti hanno origine ed in esso hanno anche la loro distruzione secondo necessità, poiché gli enti pagano l’uno all’altro giusta pena ed ammenda dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo» (DK 12 B1).

Il termine “illimitato” traduce il greco “àpeiron”. È una parola composta costituita da un’ “ά” privativo e dalla radice della parola “peras” che significa “limite”: letteralmente àpeiron significa “assenza di limite”. Talvolta si traduce con “indefinito”, “infinito” o “indeterminato”.
In questo passaggio Anassimandro spiega che gli enti, che sono effettivamente limitati, hanno nell’àpeiron la loro generazione e la loro corruzione, secondo un processo necessario che è nelle cose stesse. Inoltre Anassimandro aggiunge una nozione di ordine giuridico-morale apparentemente strana (ma più dal nostro punto di vista che è abituato a separare la morale dalle scienze naturali): dice che « gli enti pagano l’uno all’altro giusta pena ed ammenda dell’ingiustizia ». Secondo l’interpretazione più diffusa, Anassimandro vuole dire che l’imporsi delle cose, il fatto che i singoli elementi acquistino predominio sugli altri, è una forma di ingiustizia perché rompe l’ordine dell’illimitato: secondo l’ordine del tempo, ciascuna cosa assume il predominio sulle altre, ma ad un certo punto paga il fio per la propria ingiustizia e rientra nell’ordine dell’illimitato. Tale ingiustizia è dovuta alla nascita stessa degli enti, che nessun ente può evitare e che è la separazione degli enti dall’illimitato. Tale separazione rappresenta la rottura dell’unità che è propria dell’indeterminato e il subentrare del contrasto laddove vi era armonia. Gli esseri finiti, molteplici e contrastanti fra loro che derivano da tale separazione, sono inevitabilmente destinati a scontare con la morte la loro stessa nascita e a ritornare all’unità. In questo modo si ristabilisce la giustizia che è l’equilibrio in cui nessun elemento prevale sull’altro.

L’idea di giustizia Anassimandro non la esprime esplicitamente, ma essa è centrale nella scienza medica che si diffonde a partire dal VII secolo in cui l’idea di salute è associata all’equilibrio degli elementi. Nel “Corpus Hippocraticum” il corpo è pensato come una scatola in cui si contrastano quattro umori: la bile gialla, la bile nera, il flegma (catarro) e il sangue. La malattia nasce quando uno di questi umori prende il sopravvento. Solo attraverso un’opportuna dieta si raggiunge l’isonomia, l’equilibrio degli elementi.

La parola “illimitato” avrà una lunga tradizione filosofica. Anassimandro è stato il primo ad utilizzarla. Nella filosofia classica greca (il riferimento è a Platone e ad Aristotele) il termine assume un’accezione negativa: l’illimitato o infinito è ciò che non ha fine o limite, dà l’idea di incompletezza. Aristotele, in un passo della “Fisica” scrive che l’infinito si dice «come la voce rispetto alla vista»: questa espressione dà un’idea dell’infinito come di un qualcosa che non raggiunge il suo fine (la sua virtù), in quanto il fine della voce è di raggiungere l’udito e non la vista. Il finito è esempio di ordine e razionalità, mentre l’infinito è esempio di disordine e irrazionalità.
Questo non vale per il Neoplatonismo dove si fa spazio l’idea dell’infinito come di un qualcosa di superiore al finito.

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