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Il problema della traducibilità

La teoria della traduzione nel Novecento si è occupata soprattutto del problema della traducibilità. Emergono diversi gradi di difficoltà di traduzione: dalla poesia ai testi tecnico-scientifici. La teoria si è occupata soprattutto di poesia, e tra i convinti negatori di una traduzione vi sono Croce e lo stesso poeta americano Erost: "Che cos'è la poesia? Quello che si perde nella traduzione".

Anche per il linguista Jakobson la poesia è intraducibile per definizione, poichè in poesia la somiglianza dei suoni ha valore semantico ed è proprio questa somiglianza fonetica di elementi non semantici di per sè ciò che non può tradursi: se ne può solo dare una trasposizione creativa.

Per il filosofo Josè Ortega y Gasset (Miseria e splendore della traduzione, 1939) la traduzione è un'utopia: il linguaggio non consente di dire tutto ciò che si pensa, ma solo una parte. Esso è fatto anche di silenzi, un rapporto di detto e non detto interdipendente. Ed è impossibile riprodurre tale rapporto, essendo unico in ogni lingua. Nondimeno, per Ortega y Gasset la traduzione può rappresentare la rivelazione dei segreti nascosti dai popoli: un'audace ricomposizione dell'umanità.

Benjamin, ne Il compito del traduttore (1923) teorizza uno stato di corrispondenza tra le lingue, basato più sulla collaborazione che sulla somiglianza dei significati: in essa le lingue si incontrano in una pura lingua, realizzando la concilazione tra differenze che nessuna lingua può ottenere.

Tratto da LETTERATURA COMPARATA di Domenico Valenza
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