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La traduzione per gli antichi, Cicerone e San Girolamo

La storia della traduzione ha inizio già nell'antichità classica. Per i greci non esisteva un concetto vero e proprio di traduzione. Per i Romani invece la traduzione era una necessità storica, quella di tramandare all'occidente l'immensa eredità della cultura ellenistica. I generi letterari di Roma nacquero tutti per diretta imitazione di quelli romani e molti loro testi coincidevano con traduzioni di opere greche, variamente adattate, come nel caso del teatro. Attraverso la traduzione latina dal greco la lingua latina si amplia, si arricchisce, mette a frutto risorse fino ad allora inerti del suo linguaggio. Cicerone (106 a.C. - 43 a.C.) e San Girolamo (347 – 420) difendono la necessità di piegare integralmente il testo straniero alle esigenze letterarie, retoriche e culturali del latino. Non bisogna dunque tradurre parola per parola ma riprodurre il senso dell'originale nel pieno rispetto della lingua del traduttore. Una idea che si è mantenuta viva fino ad oggi e che è sempre stata quella prevalente, anche se oggi non si arriva alle libere interpretazioni ciceroniane. La libertà traduttoria dei romani dipende anche da un'idea di proprietà letteraria molto diversa da quella che abbiamo noi: l'autore contava meno della sua lingua e la sua lingua contava di meno di quella in cui la si traduceva.
Il De optimo genere oratorum di Cicerone è il più antico testo di teoria della traduzione che possediamo ed è datato al 46 a.C. Cicerone qui dice di avere tradotto da orator e non da interpres (parlava delle traduzioni di Per la Corona di Demostene e Conto Ctesifonte di Eschine, oggi perdute), dicendo che l'oratore traduce con le espressioni stesse del pensiero, con gli stessi modi di rendere questo con un lessico appropriato all'indole della sua lingua. Non bisogna tradurre parola per parola ma mantenere ogni carattere e ogni efficacia espressiva delle parole stesse, perchè non ci si sdebita soldo per soldo ma in solido.
San Girolamo, traduttore della Bibbia in latino, fu un rivoluzionario teorico della traduzione. Tradurre la parola di Dio assume valore archetipico ed esemplare, diventa la Traduzione per eccellenza. Dopo Girolamo non si trova atto di traduzione che non si concepisca profondamente come una sfida mortale al senso e all'ostilità delle parole umane.
L'opera di San Gerolamo, la Vulgata, consiste in una revisione delle traduzioni già esistenti del Nuovo Testamento (Itala e Vetus Latina) e in una traduzione integrale dell'Antico Testamento dall'aramaico e dall'ebraico. Nacquero polemiche per la sua libertà traduttoria che egli difese nel famoso De optimo genere interpretandi, una lettera a Pammachio dove fa suo ciò che già diceva Cicerone sul non tradurre parola per parola ma a senso, portando come testimoni a discarico anche Orazio, Terenzio e Plauto. Girolamo si ispira, è interessante notarlo, a pagani e forma un latino mobile, quasi romanzo, che sarà fondamentale per lo sviluppo delle lingue volgari.


Tratto da LETTERATURE COMPARATE di Gherardo Fabretti
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