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"Vaghe stelle dell'Orsa", Leone d'Oro



Nel 1965 Visconti vince finalmente il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia, premio che gli era stato negato con La terra trema e con Rocco e i suoi fratelli. Il film insignito del massimo riconoscimento veneziano è Vaghe stelle dell’Orsa, alla base del quale stanno – a parte il titolo leopardiano – molteplici suggestioni letterarie: l’Eschilo di Coefore, il Sofocle di Elettra, il D’Annunzio di Forse che sì forse che no, Proust, il Bassani de Il giardino dei Finzi Contini, l’O’Neill de Il lutto si addice ad Elettra e perfino certe atmosfere di Baudelaire, a parte gli ovvi richiami indiretti alla psicoanalisi. Al di là della letteratura, poi, vi sono le suggestioni di una particola composizione musicale, da Visconti molto amata, vale a dire il Preludio, corale e fuga di Cesar Franck.
Nel ritratto della protagonista Sandra (e nel suo aspirare alla vendetta nei confronti della madre e del patrigno, che ella sospetta di avere tradito il padre, facendolo assassinare dai nazisti), così come in quello del fratello Gianni (e nel suoi inseguire i fantasmi di una passione incestuosa, sintomo di un’infanzia non superata e di una grande solitudine esistenziale) non mancano né umori moderni, né stimolanti sollecitazioni. Per giungere tuttavia al nucleo di questa rivisitazione in chiave freudiana del mito classico, bisogna farsi strada attraverso lo spesso e elaborato tessuto di colta raffinatezza e di morbidezza letteraria con cui Visconti ha rivestito eventi e personaggi fino a renderli, a conti fatti, meccanismi di un melodramma barocco, dominato da un’aura di compiaciuta decadenza, dove alla sontuosa forma non corrisponde un contenuto efficacemente pregnante. Vi è comunque in Vaghe stelle dell’Orsa un aspetto fondamentale in cui il regista dimostra un’ammirevole coerenza. Ancora una volta, sia pure spostato su un piano quasi psicoanalitico, riappare nettamente in questo film il tema della decadenza e della morte come tragiche costanti, forme di vita addirittura dell’essere borghese. Tale contraddittoria contemplazione dell’esistenza pietrificata è d’altronde uno dei dati maggiormente significativi del cinema viscontiano, del suo essere ambiguamente vivo proprio perché denso di morte. In questo senso, Vaghe stelle dell’Orsa si colloca nella poetica viscontiana della decadenza e della morte in modo più arrischiato e discontinuo, ma certamente più esplicito rispetto a Il Gattopardo. Questo film appartiene di diritto alla seconda fase della poetica viscontiana, dove prevalgono la dannazione e la sconfitta, i sentimenti torbidi e la dannazione ontologica.

Tratto da LUCHINO VISCONTI di Marco Vincenzo Valerio
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