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Melodramma e modernità in "Rocco e i suoi fratelli"



Il denso intreccio di figure, personaggi, vicende, psicologie (molto curate quelle di Rocco, Simone, Nadia e della madre; più superficiali quelle di Vincenzo, Ciro e del piccolo Luca) mette in evidenza ambizioni romanzesche, più attente alla saldezza del modello manniano (Giuseppe e i suoi fratelli) che all’andamento rapsodico delle prose nestoriane sulla borgata milanese (Il ponte della Ghisolfa).
Se ciò non determina vistose contraddizioni, dando anzi al film un’unità epica e melodrammatica, lo si deve alle straordinarie virtù drammaturgiche viscontiane che impongono all’opera continue accensioni e costanti rallentamenti in un costante gioco retorico.
Questa magistrale gestione dei materiali drammaturgici non riesce naturalmente a impedire che nel composito impasto del racconto emerga a tratti qualche discrasia fra la finezza (romanzesca) di alcune descrizioni psicologiche e lo spessore (melodrammatico) dei grandi sentimenti, amore e odio, bene e male, vendetta e perdono ecc. Non a caso, la figura di Ciro che conclude il film, con una concreta accettazione delle leggi del mondo, appare la più amorfa caratterialmente e la più lacunosa psicologicamente: proprio perché sostanzialmente spuria sia rispetto alle sottigliezze psicologiche del racconto.
I valori assai alti di Rocco e i suoi fratelli – insieme con L’avventura di Antonioni e La dolce vita di Fellini, uno dei tre capolavori che aprono il decennio aureo del cinema italiano, gli anni sessanta – vanno, come al solito, individuati più che nelle intenzioni ideologiche nella concreta densità drammatica del racconto, nella sua grandiosità epica e melodrammatica, drammaturgica e romanzesca, nei livelli altissimi della scrittura filmica e dell’orchestrazione polifonica, nella potenza con cui vengono delineati i sentimenti e fatte esplodere le passioni. Caratteristiche che pongono Rocco e i suoi fratelli fra le vette delle filmografia viscontiana, ma che suscitarono reazioni moralistiche fra i benpensanti come dimostrano il premio di consolazione affibbiato al film dalla giuria veneziana (Premio speciale della Giuria) e le iniziative di alcuni magistrati milanesi che accusarono il film di mille nefandezze e gli comminarono sanzioni, tagli, velature in un vero e proprio trionfo di ottusità censoria e di incolto oscurantismo.

Tratto da LUCHINO VISCONTI di Marco Vincenzo Valerio
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