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I diversi paradigmi dell’etica della comunicazione

Sono cinque i principali paradigmi dell’etica ai quali ci si è riferiti per venire incontro alle istanze etiche provenienti dalla pratica comunicativa:
a) la teoria che istituisce un collegamento privilegiato fra etica della comunicazione e una specifica concezione della natura dell’uomo;
b) quella che rilancia la prospettiva di un pensiero interattivo, dialogico, come via che consente il raggiungimento di un’intesa (quindi che vede il dialogo come sfondo di ogni rapporto comunicativo);
c) il modello retorico del riferimento all’audience;
d) la teoria che assume il principio dell’utilità, individuale o collettiva, in qualità di criterio predominante dell’azione;
e) il modello della comunità della comunicazione.

Ciascuna di queste dottrine non deve essere messa sullo stesso piano dell’altra: ogni modello trova negli altri paradigmi la condizione del suo effettivo approfondimento, e tutti hanno nell’idea di una comunità della comunicazione lo sfondo generale che li può legittimare. Tutte queste teorie cioè rimandato ad un’unica idea guida: la tesi per cui comunicare significa per l’apputno creare uno spazio comune. 
Dai paradigmi presi in esame emergono delle specifiche indicazioni di comportamento riguardo all’agire comunicativo, ma ciascuna di queste strategie può incontrare delle difficoltà.

a) La teoria del collegamento privilegiato tra etica e natura dell’uomo fa riferimento a una determinata idea dell’essere umano: l’uomo è considerato in possesso, per sua natura, di alcuni caratteri che possono favorire una comunicazione che si svolge secondo principi morali da un lato, e secondo criteri del tutto differenti dall’altro. E’ possibile dunque fondare un’etica della comunicazione sull’assunto della bontà della natura umana (l’essere umano è portato a realizzare il bene per sé e insieme per gli altri uomini), cioè sul carattere aperto al riconoscimento degli esigenze degli altri, oppure si può rinunciare a farlo asumendo una concezione egoistica dell’uomo stesso. Tutto dipende da come viene considerata questa specifica “natura”. “Agire bene” perciò significa agire tenendo conto, sempre, di questa natura. Si parte da un assunto fissato una volta per tutte (che può essere la “natura”, l’ “essere”, l’ “essenza”) e lo si considera caricato di valore, giudicando di conseguenza “buono” o “cattivo” tutto ciò che si conforma ad esso. In questo modo però il giudizio di valore finisce per legarsi ad una ben precisa concezione dell’essere.

b) Il modello etico di comunicazione del dialogo invece afferma che quest’ultimo costituisce il paradigma di ogni rapporto comunicativo, poiché dialogando l’interlocuzione si realizza nella maniera più adeguata. Ogni dialogante sa che la sua posizione non è mai assoluta, definita, immodificabile. Non sarebbe vero dialogo quello nel quale chi parla lo facesse solamente per motivi “narcisistici”, utilizzando cioè l’interlocutore come uno specchio in cui riconoscere se stesso. Le ragioni dell’altro sono funzionali alla conferma delle proprie tesi come pure ad indurre un reale mutamento di idee: la base di una buona riuscita del rapporto dialogico sta la disponibilità a mettere in gioco se stessi, la capacità di aprirsi a ciò che l’altro può dire. Il discorso che si svolge tra due o più persone comporta un’esposizione a ciò che ognuno pensa dell’altro e che vuole da lui. Emerge così il rischio di questa forma di scambio comunicativo: il rischio di diventare altro rispetto a quello che si è, di perdere la propria identità.

c) Il paradigma retorico di grande successo è quello del riferimento all’audience. Questo sostiene che la buona comunicazione è quella che viene comunque incontro all’interlocutore, cioè per la quale l’audience riveste primaria importanza. Qui si è attenti in modo speciale a colui al quale si parla, pertanto secondo questa strategia una comunicazione riuscita è appunto quella che ottiene il risultato di essere intesa e di coinvolgere chi ne è interessato.  Si impone così il criterio di fedeltà all’interlocutore, ossia l’esigenza di salvaguardare il diritto non solo di chi parla, ma soprattutto di chi ascolta. Vi sono però dei limiti che non devono essere superati. In ambito giornalistico per esempio, l’etica del primato dell’audience fa sì che lo stile con cui viene proposta una notizia finisce per essere più importante della notizia stessa. La forma così diviene sempre più autonoma rispetto al contenuto, e lo scopo del comunicare rischia di essere solo quello di persuadere: la comunicazione viene appiattita e si impone la figura del leader (colui al quale affidarsi).

d) La teoria fondata sul criterio dell’utile parte dal presupposto che il principio supremo dell’agire morale  deve promuovere non tanto l’autoaffermazione di una parte o la salvaguardia di un interesse individuale, bensì la diffusione di una prospettiva che può essere universalmente condivisa. Il principio dell’utile in realtà si riferisce sempre all’utile inteso, ma soprattutto all’utile individuale, di un settore o di un gruppo determinati. L’affermazione di un utile è sempre di parte, ed esso non potrà mai diventare patrimonio davvero comune, perché qualcuno inevitabilmente ne verrà escluso. Non si potrà mai eliminare definitivamente la parzialità che contraddistingue la sua affermazione: si potrà definire l’utile di una parte in modo che possa essere riconosciuto come tale anche da altri, ma non si potrà escludere che questi lo intendano di volta in volta, sulla base delle loro esigenze e lo assumano in modi differenti. La mediazione dei vari interessi parziali non viene giustificata da un punto di vista etico, ma è demandata a un piano giuridico, cioè è regolata sulla base di sanzioni che possono colpire chi trasgredisce  norme imposte dall’esterno. Tuttavia difficilmente è possibile trovare una soluzione equilibrata. Resterebbe comunque aperto il conflitto fra ciò che le diverse comunità e i vari Stati considerano utile, in modi differenti gli uni dagli altri. Sottoforma di teoria filosofica, e quindi in forma universale, il principio dell’utile si presenta come la dottrina dell’utilitarismo. La tesi di fondo è che tutti gli uomini sono indotti ad agire spinti dal perseguimento dell’utile, inteso come ciò in cui si realizza la felicità individuale, l’appagamento di sé. Tale tendenza alla felicità è considerata l’elemento che contraddistingue ogni soggetto morale, e compito dell’utilitarismo è anche individuare il modo in cui la ricerca della felicità del singolo può condurre all’affermazione dell’utile collettivo, scoprendo il meccanismo che consente di rendere felici, oltre a lui, il maggior numero possibile di persone. Risulta evidente il paradosso: quello che universalizza il principio dell’utile in cui è affermata la particolarità di ogni movente morale. Bisogna quindi distinguere l’universalità della forma che deve assumere questa teoria, e l’universalità della possibile lettura che viene data al principio dell’utile. Resta il fatto che nell’etica della comunicazione, il compito dell’utilitarismo è di solito quello di promuovere il bene più grande per il maggior numero i persone e per il tempo più lungo possibile (si prospetta un etica caratterizzata da una istanza di utilità sociale). Tuttavia rimane un interrogativo cruciale quello della motivazione, cioè del perché bisogna agire secondo il principio dell’utile e non seguendo altri criteri di scelta.

e) Il modello  di etica della comunicazione che meglio risolve i problemi incontrati negli altri paradigmi, è quello basato sul principio della comunità di comunicazione. Come già detto, nell’ambito comunicativo è possibile vedere all’opera principi morali ben precisi già nell’esercizio stesso della comunicazione (la giustizia, la solidarietà, la co-responsabilità). L’etica comunicativa di Habermas e Apel sostiene che  la scelta etica fondamentale davanti a cui è posto chiunque comunica, concerne la possibilità di essere fedeli o meno ai principi etici, che comunque sono propri dell’atto comunicativo.

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