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Hume - La filosofia come antidoto al suicidio

Hume -La filosofia come antidoto al suicidio


Secondo Hume, la Filosofia offre un antidoto supremo contro le superstizioni e la falsa religione; tutti gli altri rimedi si rivelano vari o incerti. La storia come pure l’esperienza quotidiana dimostrano che uomini dotati di eccellenti capacità negli affari diventano schiavi delle più comuni superstizioni.
L’uomo superstizioso, afferma Tullio, è miserabile in ogni luogo e in qualsiasi circostanza della vita; sebbene la morte possa porre fine alla sua miseria, egli non osa rifugiarvisi, ma prolunga oltre un’esistenza sventurata, per il vano timore di offendere il Creatore.
Si osserva che chi è costretto dalle avversità della vita a ricorrere al suicidio, nel caso in cui l’inopportuno intervento di alcuni amici lo sottraesse da quel tipo di morte, difficilmente ci proverebbe una seconda volta. Quando le minacce della superstizione si uniscono a quelle di un naturale timore, essa sottrae agli uomini ogni controllo sulla propria vita.
Nel tentativo di restituire agli uomini la loro originaria libertà, Hume discute gli argomenti contro il suicidio, dimostrando che questa azione può essere liberata da ogni accusa di colpa o vergogna.
Se il suicidio fosse un atto criminale, dovrebbe essere una trasgressione del nostro dovere nei confronti di Dio, del prossimo e di noi stessi. Per governare il mondo fisico, il Creatore ha stabilito leggi immutabili e universali, grazie a cui tutti i corpi sono mantenuti nella propria orbita e con la propria funzione. Tutti gli eventi, in un certo senso, possono rivelare l’intervento dell’Onnipotente.
Non esiste avvenimento che Egli abbia svincolato dalle leggi generali che governano l’universo.
Come da un lato, gli elementi e le altre parti inanimate del creato portano avanti la loro funzione senza riguardo all’interesse e alla particolare condizione dell’uomo, così gli uomini si affidano al proprio giudizio e alla propria discrezione nella lotta contro la materia.
Hume si domanda dunque perchè un uomo che, stanco della vita compia la sua fuga da un luogo crudele, dovrebbe scatenare l’indignazione del suo Creatore, interferendo con l’ufficio della Divina Provvidenza e turbando l’ordine dell’universo. Ciò è falso; la vita degli uomini dipende dalle stesse leggi dalle quali dipende la vita di tutti gli altri animali; le leggi generali della materia e del moto.
In più, la vita di un uomo non è più importante per l’universo di quella di un’ostrica; e anche se fosse l’ordine della natura umana l’ha subordinata di fatto all’umana prudenza e ci costringe, in ogni circostanza, a decidere in merito ad essa.
Se disporre della vita umana fosse un diritto esclusivo dell’Onnipotente, sarebbe criminoso agire per la sua conversazione come per la sua distruzione. Se schivo una pietra che sta per cadere sulla mia testa, turbo il corso della natura e usurpo la funzione dell’Onnipotente, prolungando la mia vita oltre il tempo che, secondo le leggi generali della materia e del moto, egli le aveva assegnato.
La vita umana può essere infelice e la mia esistenza, se prolungata oltre, potrebbe diventare insostenibile. La sottomissione alla provvidenza non esclude l’operosità umana, se grazie ad essa fosse possibile sfuggire la sventura. Se la mia vita non fosse proprio mia, sarebbe ugualmente criminoso per me metterla in pericolo quanto disporre di essa.
E’ un sacrilegio, afferma la superstizione romana, deviare i fiumi dal loro corso. E’ un sacrilegio, afferma la superstizione francese, iniettare il vaiolo. E’ un sacrilegio, afferma la superstizione europea, porre fine alla propria vita, e ribellarsi al Creatore; allora perché mai non è considerato sacrilego costruire case, navigare oceani. In queste azioni, usiamo le nostre facoltà per provocare qualche cambiamento nel corso della natura. Esse sono tutte ugualmente innocenti o criminose.
La provvidenza guida tutte queste cause, e nulla accade nell’universo senza il suo consenso. Se è così, neppure la mia morte, per quanto volontaria, avviene senza il suo consenso. E’ un’eresia immaginare che un essere creato possa invadere il campo della Provvidenza. Ciò supporrebbe che quell’essere fosse in possesso di facoltà e poteri che non gli provengono dal suo Creatore.
Attraverso quei principi che egli ha impresso nella natura umana, che ci infondono un senso di rimorso, se abbiamo commesso certe azioni proviamo un sentimento di biasimo. Hume vuole  verificare se il suicidio appartiene a questa categoria di azioni.
Un uomo che rinuncia alla vita non nuoce alla società: egli smette di agire nel suo interesse. I nostri doveri di agire per la società implicano uno scambio reciproco: io però non ho l’obbligo di produrre un bene minimo per la società a scapito di un danno massimo verso me stesso.
Ma supponiamo che non sia più in potere di un uomo promuovere l’interesse della società; che sia divenuto un peso per essa; che la sua vita impedisca ad altre persone di essere più utili alla società: in questi casi, la mia rinuncia alla vita non sarebbe solo innocua, ma lodevole. Coloro che godono di buona salute, di potere, di autorità, hanno più ragione di essere in simbiosi col mondo.
La vecchiaia, la malattia, la sventura possono trasformare l’esistenza in un fardello e renderla anche peggiore dell’annichilimento. Hume crede che nessun uomo abbia gettato mai la sua vita, finchè essa era degna di essere conservata, anche per il nostro naturale orrore per la morte. Chiunque sia ricorso a questa soluzione, lo ha fatto perché tormentato da una incurabile tristezza d’animo, che gli avvelenava ogni gioia e lo rendeva ugualmente infelice.

Tratto da RIFLESSIONI SUL SUICIDIO DI DAVID HUME di Domenico Valenza
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